martedì 29 dicembre 2009

Italo, il re degli enotri, insediò l’Italia a Trebisacce




Si nascondono nella Piana di Sibari le stirpi arcaiche del popolo italico. il coscile propone i risultati degli ultimi scavi in un libro di archeologia



“Trebis-saxa” (“roccia”, fortificazione di Trebis) o “Trebis-axis” (“tavola”, tavoliere), o “Trapezàkion”, dal greco “tràpeza” (il castrum del periodo bizantino)?
L’etimologia del toponimo Trebisacce si presta a svariate chiavi di lettura, poiché molto dipende dalla lente con la quale si decide di osservarla e dal tipo di interpretazione che si vuole attribuire alle ricerche archeologiche eseguite dai ricercatori e dagli studiosi che si sono alternati nella documentazione del territorio.
La casa editrice il coscile propone un percorso esplorativo-conoscitivo tracciato da Tullio Masneri nel libro Archeologia di Trebisacce (pp. 288, € 13,00), pubblicazione di interesse storico-antropologico e archeologico che pone in risalto le osservazioni e gli scavi nell’area di Trebisacce, forse insediamento di una tribù bruzia, i “Bruttaces” in epoca romana, o insediamento protostorico a Broglio di Trebisacce (1700-700 a.C.) prima della fondazione di Sibari.

Testimonianza millenaria
Masneri, negli ultimi anni Novanta a cavallo con i primi del Duemila, torna a fare oggetto di studio i luoghi che raccontano le vicende dei primi popoli insediatisi nella Sibaritide, location agiata, tra mare e monti, popolata dagli enotri, preferita dai conquistatori greci e ambita dai romani.
Da alcuni rinvenimenti archeologici si ipotizza che Italo, dominatore e precursore dell’idioma italico, abbia posto domicilio in terra calabrese, stabilendo villaggi su alture a diretto contatto visivo l’uno con l’altro per favorire il controllo e la stabilità delle comunità, tendendo ad esercitare un’azione di pacificazione e di costruzione solida, che solo la venuta dei greci ha intaccato nel profondo.
L’autore, infatti, a proposito degli enotri, narra la prospettiva socio-economica che questo popolo è stato capace di offrire alla Piana di Sibari ed alle colline che le fanno da corona, valorizzandone l’eccezionale fioritura dovuta alla feracità della terra, produttiva ed aperta ai contatti con gli stranieri, prima i micenei e poi i fenici, consolidando una posizione culminante per civiltà e benessere.
Virgilio, nell’Eneide, scriveva: «C’è un luogo – i Greci lo chiamano Esperia – / terra antica, potente per armi e di fertile zolla; / gli Enotri la popolarono; ora è fama che i loro nipoti / abbian detto Italia quel popolo, dal nome del capo».
Interessante diviene dunque, il percorso proposto dall’autore alla scoperta di nuovi e avvincenti indizi autentici e alla riscoperta di quelli esistenti, permettendo, in questo modo, un parallelo fra le notizie in essere e le acquisizioni a seguito delle ultime indagini archeologiche. Emerge difatti, ancora, il dubbio che nei sotterranei dell’edificio delle scuole elementari di Trebisacce dove, nel 1948 fu scoperta una tomba greca del periodo successivo alla distruzione di Sibari, possa nascondersi qualche traccia del passato.
Curioso e intrigante è il passaggio nelle antiche civiltà: che tipo di scambi commerciali proponevano i pionieri dei mercati calabresi? Da cosa deriva la leggenda della produzione della migliore pece bruzia? Quali i segnali peculiari di una civiltà volta alla cultura femminile? E quale l’espressione artistica dei popoli alle prese con la produzione di cimeli?
Masneri propone e argomenta altresì alcuni interventi antropici sul territorio di Trebisacce e della Sibaritide, menzionando la tecnica delle anfore capovolte sotto il manto stradale, utilizzata per il drenaggio delle acque e non molto distante dall’attuale strada statale 106, antica litoranea romana, come ad esempio, in contrada Chiusa a breve distanza dal mare.
In questa contrada, nelle operazioni di scavo realizzate tra il 1986 e il 1987, sono stati individuati due edifici di pianta e dimensioni simili destinati probabilmente allo stoccaggio di anfore commerciali e riconducibili alla presenza romana in Calabria e che hanno permesso di ricostruire la storia di Trebisacce nel periodo compreso tra I e II secolo d.C.

Prospettiva futura
L’archeologia del territorio, tuttavia, può definirsi giovane perché le notizie e le novità si rincorrono annualmente e, per dirla con l’autore, «in siffatto contesto […] si cerca di tirare le somme di una ricerca che ha avuto l’ardire di mettere insieme una serie di elementi molto diversi che provengono dalla tradizione o sono emersi dagli strati del passato, con la prospettiva che le novità di oggi potranno essere smentite anche entro breve tempo, se le ricerche continueranno e verranno tentate altre strade, oltre a quelle già note».
Il linguaggio è fluido nonostante le abbondanti citazioni latine, argomentate correntemente. Lo stile è cronachistico e la narrazione è arricchita di fonti documentali non irrilevanti. Viene proposta la carta archeologica di Trebisacce con l’indicazione dei siti entro i confini comunali.
Un libro che non si legge certamente tutto d’un fiato per via delle copiose nozioni da ricordare e tenere a mente, ma che alla fine della lettura offre un quadro abbastanza completo e divertente, per certi aspetti, delle origini del territorio trebisaccese (e dell’Alto Ionio) e che incuriosisce non solo gli indigeni calabresi.

Marilena Rodi
(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 8, aprile 2008)

martedì 1 dicembre 2009

Missione educazione: la libertà sta nella cultura

Autonomia di giudizio e indipendenza ideologica: il ruolo del docente è di ispirare e orientare. Sovera Multimedia lancia uno scambio dialettico



Il mondo della scuola? Quasi una catastrofe. La classe insegnanti? Carica di responsabilità e talvolta impreparata ad affrontare gli studenti. Gli allievi? Ancora fino a un decennio fa si poteva discutere di allievi, forse. In epoca contemporanea diventa complicato e paradossale definirli tali; semmai, “domatori” di adulti (e perché no, anziani) in un sistema alla deriva.
L’istituzione, fondata con i migliori propositi per la creazione di anime liberamente ispirate a cultura e istruzione, pare stia fallendo il proprio obiettivo. Il nuovo millennio, oltre l’avvicendamento di configurazione numerica, ha concepito una generazione di giovani impreparati, arroganti e incapaci, che di accogliere l’educazione scolastica non vogliono nemmeno sentir parlare.
Ne sa qualcosa la protagonista e autrice di Donne con le palle (Sovera Multimedia, pp. 92, € 11,00), Giovanna Curone, insegnante di letteratura, storia e geografia di un istituto superiore di Roma; una donna sicura di sé e determinata a trasmettere la valenza dell’istruzione a una classe di somari che frequentano il primo anno. Reduci del tirocinio d’obbligo, si avvicendano sui banchi della scuola media di II grado malvolentieri e nemmeno troppo preoccupati di acquisire le competenze tecniche necessarie per poter svolgere la professione per la quale debbono prepararsi.

Determinazione e “genio scrivano”
Quasi una missione, l’impegno della docente si profonde per gli allievi, per i quali deve reinventare ogni giorno il modo più efficace di garantire l’apprendimento delle nozioni basilari della buona educazione e del vivere quotidiano nella società, e per i colleghi, verso i quali nutre rispetto, ma anche scetticismo per i metodi di approccio e d’insegnamento adottati. Si ritrova così, a dover escogitare sistemi maliziosi ma efficaci per entrambi.
Con gli studenti, raccontando di relazioni interpersonali con l’altro sesso, notificando comportamenti poco eleganti per le femmine e cafoni per i maschi; architettando stratagemmi fantasiosi pur di invogliarli ad esprimersi in scritti creativi, simulando gare di bravura, interrompendo brusii e dialoghi poco consoni all’ambiente, alzando la voce con il capobanda e conquistando il meritato silenzio.
Con i colleghi e superiori, grazie a colpi di genio, sfrutta la sua eccellente dote di narratrice per trasferire silenziosamente opinioni e lezioni di vita, intuendone la singolare condizione umana di sottomissione e vergogna, nonché, paradossalmente, di presunzione trionfante, che talvolta rende ciechi al bisogno di condividere sentimenti e ansie.

Figli, genitori e metodi
La missione della docente, tuttavia, coinvolge trasversalmente anche la famiglia in questo tentativo di smuovere gli studenti e di responsabilizzarli nei rapporti interpersonali. In uno dei capitoli (intitolato “Là dove un alunno azzittisce la madre”) Giovanna Curone porta alla luce la reticenza dei genitori nei confronti degli insegnanti, “inviperiti” perché convinti che essi non siano davvero in grado di fare il loro mestiere. L’episodio, ilare, per quanto insolito, vede gli studenti partecipare attivamente al gioco dello scarabeo (trovata della docente per avviare un processo naturale di impiego della lingua italiana e di quella inglese) e scatenare il caos dettato dal fervore creativo. Una madre, indispettita, si catapulta nella classe accusando senza mezzi termini la docente di adottare metodi non convenzionali e che sta assistendo ad un’inutile e perdita di tempo. Giovanna tenta di elevare la statura intellettuale della sua interlocutrice spiegandole che quanto in opera è mezzo per il raggiungimento del fine più nobile di favorire un linguaggio corretto e più articolato degli studenti. Nell’alterco senza via d’uscita interviene lo studente, figlio della donna, con un comico «A mà! Ma statte zitta…», e rientrando in classe sbatte la porta lasciandosi alle spalle le espressioni attonite delle due donne.
L’ignoranza e la superbia, talvolta, si fondono creando e coltivando pregiudizi vani e gratuiti, agevolando barriere architettoniche tra culture difformi, quando è ancora possibile parlare di culture. Più spesso è disarmante scoprire che si tratta si radicata inciviltà.
Il linguaggio è lineare, ad intermittenza, arricchito da espressioni colorite tipiche dell’ambiente giovanile, denso di esperienze reali che rendono la narrazione fluida, seppur guarnita di espressioni dialettali e turpiloqui poco chic. Lo stile torna spontaneo definirlo street di conseguenza, ma la valenza istruttiva, soprattutto per la categoria matura, ricambia degnamente la lettura rocambolesca.
Una finestra inconsueta su uno spaccato in condizioni d’indigenza che rilancia il desiderio di offrire un’altra opportunità al mondo scolastico. Del resto, come recita l’autrice nel libro: «Chi siamo noi per decidere ciò che è giusto e ciò che non lo è? Un insegnante non ha formule magiche, può solo fare il suo mestiere: tirar fuori dalle zucche vuote ciò che loro stessi non vogliono ammettere…».

Marilena Rodi

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 8, maggio 2008)

martedì 20 ottobre 2009

Intrighi e soluzioni di politica “nostra” in chiave futuribile

di Marilena Rodi

Quando l’uomo cerca la felicità e trova
l’arte del governo. Laruffa editore narra
l’itinerario “semiserio” di un candidato



I meccanismi politici “futuristici” paiono somigliare segretamente e fortemente a strategie antiche quanto il mondo. Gli intrighi diplomatici appartengono all’uomo conciliatore, a colui che riesce a “parlare con tutti” e a caldeggiare le esigenze della massa, avendo bene a mente di assecondare in primis i favori del proprio popolo elettorale. La politica è per uomini scaltri e pronti ad accettare la mediazione, non c’è posto per errori di valutazione o incertezze.

Il magistrato Vincenzo Giglio ne Il Politico. Una storia di casa nostra (Laruffa editore, pp. 174, € 10,00), tende a far emergere, seppur in maniera apparentemente fantasiosa, una realtà consolidata e invita il lettore, sottilmente, a farsi carico della responsabilità di “capire” quei meccanismi, anche se non ad avallarli.

Con un linguaggio popolare e uno stile di scrittura equilibrato e consapevole, l’autore evidenzia, in un ipotetico anno 2011, quanto può accadere “per caso” nella vita di un uomo il cui desiderio è la felicità che consegue a un ordine di vita tranquillo, spensierato, quasi infantile. Esorta a una non rassegnata sottomissione al sistema di clientelarismo, ovvero a quanto propinato dalle forze politiche, e a studiarne il profilo; invoglia a individuare coscientemente messaggi che vivono della parvenza di buonismo e incita l’intelligenza umana a dubitare della coerenza esasperata di personaggi che godono di un ampio consenso elettorale.


Il profilo del giovane politico

La storia del protagonista, Gino Pulejo, è uno spaccato di vita quotidiana in una Calabria in stato di sospensione temporale, una regione in costante affanno che deve fare i conti con un sistema generale di precariato professionale e sociale, il quale si integra in un più ampio panorama nazionale di un’Italia che vive di inquietudine ed esitazioni.

Gino, un uomo alle prese con insoddisfazione personale e incapacità di nutrire fiducia in se stesso, troppo spesso rinviato a miglior condizione professionale, si allinea, nel profilo, allo stato in cui destano i giovani del nostro tempo: “soggiornano” in famiglia nell’attesa-speranza di un collocamento che possa migliorare la propria esistenza. Il suo obiettivo è quello di godere di uno standard medio di vita, serenamente maritato, praticando l’arte del vivere felici accontentandosi di un lavoro stabile. Senza troppe pretese. La società nella quale interagisce non gli offre su un piatto d’argento tale condizione e, come da antico adagio, “la fame aguzza l’ingegno”: Gino incontra una persona che diviene trampolino di lancio verso una nuova visione del suo quotidiano.

Sebbene non per scelta spontanea, il protagonista accoglie la sfida di misurarsi in ambito politico, affacciandosi a un mondo sconosciuto, ma via via intrigante e stimolante. Apprende rapidamente le strategie dialettiche e il confronto con i colleghi maturi, cerca di inquadrare le motivazioni che possono determinare la reazione delle persone e impara a pensare velocemente. Ottiene l’incarico di assessore e la sua scalata sociale e politica ha inizio. Eppure, lo slancio emotivo, che aveva caratterizzato la “scelta”, resta coerente con l’antico desiderio, la stabilità, a tal punto da indurlo a credere ingenuamente di averla conquistata.

Ma la politica, prima o poi, presenta il suo conto e il debito va saldato.


Un atteggiamento condivisibile?

L’autore riesce a coinvolgere il lettore nella parodia, fumettistica per certi versi, di un personaggio consueto che si inserisce tra le fila dei “medi”, esaltando le vicende umane e conservando l’oggettività della cronaca, stimolando la capacità di giudizio di colui che interpreta la narrazione e schierandosi, necessariamente, a favore dell’evoluzione dei fatti. Segretamente il lettore pare quasi temere il palesamento delle verità nascoste: la riflessione spontanea potrebbe condurre ad apprezzare i sacrifici e la continua ricerca di felicità del protagonista, “chiudendo un occhio” su circostanze di dubbia etica, nonostante l’onestà debba indurre alla giustizia delle condizioni.

Giglio, tuttavia, in una visione fedelmente “futuristica”, conclude l’avventura sorprendendo per la singolarità di soluzione, preservando il profilo di Gino Pulejo.


Marilena Rodi

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 12, agosto 2008)

Il mito di Cassandra: quando realtà e mitologia si legano nella quotidianità. Cossiga, un “vecchio” della politica


di Marilena Rodi

Rubbettino propone confessioni
e vaticini del presidente emerito




Cassandra, figura mitologica greca, figlia del re di Troia Priamo e detentrice del dono della preveggenza, nell’immaginario collettivo viene associata alle persone che profetizzano eventi disfattisti; galeotta fu la condanna impartita da Apollo alla giovane – di profetizzare e mai essere ascoltata – che aveva coraggiosamente rifiutato il suo amore. Altro destino, seppur parallelo, pare aver percorso la Pitia (o Pizia), sacerdotessa investita da Apollo a pronunciare oracoli, venerata e scrupolosamente rispettata, nonostante i suoi vaticini fossero frutto di alterazioni mentali, allucinazioni e trance. I due destini si incrociano nella mitologia così come nella realtà. Francesco Cossiga, presidente emerito della Repubblica Italiana, nel suo Mi chiamo Cassandra. Arguzie, giudizi e vaticini di un profeta incompreso (a cura di Anna Maria Cossiga, Rubbettino, pp. 168, € 9,00), svela al lettore, serenamente, le sue lotte interiori e i confronti non sempre diplomatici intercorsi con alcuni personaggi della scena politica italiana. Da Enrico Berlinguer a Massimo D’Alema, a Romano Prodi, a Silvio Berlusconi, a Giorgio Napolitano, passando per le “ultime repubbliche” e i personaggi che vi si sono avvicendati. Un libro che è una raccolta di articoli, accuratamente selezionati tra i pezzi firmati, anche gli pseudonimi.


Cassandra-Pizia, ego-alter ego del presidente emerito

Si sente un po’ Cassandra un po’ Pizia Francesco Cossiga, che, sul calare del 2005, aveva dichiarato: «Dal 1° gennaio 2006 non mi occuperò più di “politica militante”, né con attività, né con parole, né con scritti. Non mi occuperò di politica, salvo lo impongano imprescindibili motivi di coscienza etica […]» continuando «nella vita vi è un tempo per operare ed un tempo per meditare e prepararsi a morire nella pace del Signore ed in amicizia con Lui». Ma si sa, non sempre i buoni propositi corrispondono ad altrettante azioni. Dopo quell’annuncio, Cossiga ha continuato comunque a parlare e a scrivere di attualità politica intervenendo a tavole rotonde, a dibattiti televisivi e radiofonici concedendo, altresì, interviste sui temi banditi. “Intromissioni” di un certo tipo sarebbero riconducibili a quegli «imprescindibili motivi di coscienza etica»?. Dotato di capacità di osservazione acuta e cristiana modestia, incline alla battuta ironica e pronto a favorire scuse pubbliche, Cossiga spesso è stato tacciato di follia; una personalità complessa suscettibile di amori e dissapori. «Ma io non sono matto. Io faccio il matto. È diverso… […] io sono il finto matto che dice le cose come stanno» (da Il Foglio, 27 maggio 2006).


Viaggio nell’ideologia del “picconatore”

Il primo capitolo è dedicato a La sardità, un concetto non facilmente intuibile per chi sardo non è. Riferendo peculiarità tipiche della sua terra, il presidente tratteggia i riti superstiziosi e le fantasie di un popolo incline alle profezie e alle credenze folcloristiche. Ricorda l’incanto dell’autonomia del vecchio Ducato di Savoia, caduto a favore del nuovo Regno di Sardegna, e la stranezza dei sardi nel votare unilateralmente a sostegno della realtà che veniva configurandosi. Una terra dove «non si dice “rubare il bestiame”, ma “truvare sa roba”, cioè “far camminare la roba”» e dove la vendetta è azione alla quale un uomo d’onore non può sottrarsi. In questo capitolo Cossiga racconta le sue origini miste, tra borghesia e piccola nobiltà, la fanciullezza e i miti infantili appartenuti alla famiglia democratica, antifascista, repubblicana e autonomista sarda. Non perde occasione, l’autore, per puntualizzare la sua educazione in parrocchia-oratorio, diversamente da Romano Prodi, in parrocchia anch’egli, ma in «odore di sagrestia!». Nel secondo capitolo, Alias, vengono riproposti gli alter ego di Cossiga, nomi con i quali firma articoli e interviste e che diventano emblematici della contraddizione del suo pensiero. Uno di questi è Franco Mauri, ispirato al nome completo, Francesco Maurizio, e con il quale su Libero del 2003 dichiara il suo mito politico, Palmiro Togliatti. Fa sorridere altresì la vignetta di Forattini riportata in copertina: un Cossiga vestito da magistrato al banco degli imputati che proclama: «Sono per il no, ma per non interferire, voterò sì». Il terzo capitolo, Comunismo & Co. racchiude la filosofia cossighiana: “Odi et amo”. L’autore sostiene che «la grandezza oscura del comunismo è questa: il comunista vero non deve avere né padre, né madre, né fratelli». Durante la gioventù Cossiga fu tentato di iscriversi al Pci perché rappresentava la lotta al nazifascismo e la vittoria della democrazia, la libertà e la Repubblica. Nei decenni successivi si è andata perdendo l’importanza della lotta di classe e assistiamo all’assalto dei nuovi “poteri forti”, non controllabili, come ad esempio la globalizzazione finanziaria e dell’informazione. Ironicamente puntualizza che durante la celebrazione del 25 aprile vanno in piazza le bandiere rosse, sicché nell’immaginario collettivo «“Resistenza” e “comunismo” rimangono tuttora un binomio indissolubile» (da Il Giornale del 26 aprile 2005). I sei capitoli successivi sono dedicati ognuno a un personaggio. Comincia con Stalin, il presidente, scrivendo di lui: «Ogni forte ideologia deve avere un mito. Così c’era il mito del comunismo, che non sarebbe stato tale se non ci fosse stato il mito dell’Unione Sovietica. E l’Urss non sarebbe stata tale se non ci fosse stato Stalin». Prosegue con Enrico Berlinguer, parente di secondo grado (come essere fratelli in Sardegna), nobile benché socialista: «è stato un grande leader politico e morale del nostro tempo, un testimone del travaglio profondo della democrazia italiana». Di Massimo D’Alema dice che è «il miglior fico del bigoncio della politica italiana», non avendo mai nascosto per lui stima e amicizia, nonostante fosse stato accusato di antisemitismo e implicato nell’affare Unipol. Quando è chiamato ad esprimere un’opinione su Romano Prodi, l’autore svela sulle pagine de Il Foglio del 2003: «Prodi è la persona che capisce meno di politica, ma è uno dei più furbi che conosco… dice le bugie meglio di Berlusconi». Non si attarda, Cossiga, a dare la sua interpretazione anche su Silvio Berlusconi: «Forza Italia è l’unico caso di un partito fondato non sulla base di una scelta culturale e direi quasi filosofica, ma per emancipazione di un’unica personalità» e continua: «Berlusconi è una novità assoluta, unico caso di leader che ha creato un partito ex novo e dunque nemmeno concepibile senza di lui». Di George W. Bush junior Cossiga non è affatto un grande ammiratore, ma non perde occasione per manifestare le sue contraddizioni. In occasione della visita italiana di Bush, nell’estate del 2007, il presidente appende la bandiera “stelle e strisce” alla finestra di casa e colma il presidente americano di attenzioni, ma nello stesso giorno si reca in piazza del Popolo, bandiera alla mano, dov’è in corso la manifestazione anti-Bush.


Questione di morale

Nei capitoli successivi Cossiga si sofferma sulle questioni etiche, morali e religiose che derivano da argomenti scottanti come l'Islam, Israele e gli ebrei. Da cattolico convinto, l'autore torna sulla questio "Allah-Dio", tema spinoso, che anche Benedetto XVI durante la lezione di teologia di Ratisbona, non contribuisce a chiarire. Per Cossiga l'Islam è certamente religione, ma si lega strettamente al fondamentalismo e alle azioni terroristiche anti-occidentali: «Ma si tratta davvero di terrorismo o è, piuttosto, la legittima reazione dei musulmani ad un Occidente che li ha colonizzati […] volendo imporre la democrazia nei loro paesi?». Sull’etica prende di mira il referendum sulla fecondazione assistita e le unioni di fatto. Chiama a riflessione, nel febbraio 2007 sulle pagine de Il Tempo, gli “amici” della sinistra: «[…] voi cattolici italiani, obbedirete o voterete lo stesso il disegno di legge Pollastrini-Bindi in nome del principio della laicità della politica?». L’ultimo capitolo è dedicato ai tanti vaticini profetizzati dal presidente, «alcuni avveratisi, altri no, altri ancora da vedersi», come recita il sottotitolo. Con impeccabile ironia e voglia di rivelare la politica italiana nel quadro internazionale, Francesco Cossiga si racconta attraverso gli articoli e le missive pubblicate sulle testate giornalistiche, a botta di “picconate”.

Marilena Rodi

Fonte: www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 16, dicembre 2008

venerdì 3 luglio 2009

Passaggio a Oriente: “dimensione” di una realtà



di Marilena
Rodi






La lentezza di un viaggio nell’anima umana raccontata da Tabula Fati:
la biforcazione davanti
a un bivio, la strada suggerita da un imprevisto

Fine anni Trenta. Il protagonista della vicenda, Vittorino, è poco più che adolescente alla vigilia della Seconda guerra mondiale e un evento infelice caratterizza alcune scelte di vita, dirottandolo in una dimensione quasi surreale. Tale è la dimensione nella quale viene catapultato il lettore, che, lentamente, scivola nella lettura del libro Istanbul bound, di Carlo Bordoni, Presentazione di Teodor Józef Korzeniowski (Tabula Fati, pp. 188, € 10,00), non riuscendo più a staccarsene, catturato dallo stile con il quale l’autore descrive ambienti, personaggi, sentimenti ed episodi, tra sogno e desiderio di un viaggio inaugurato e mai compiuto.


Avventura e seduzione lungo la Via della Seta

Una fotografia diventa la spinta motivazionale del giovane protagonista, l’aspirazione a effettuare la traversata a Oriente; quei luoghi bramati nelle sue fantasie, seppur temuti, che con lo scandire dei giorni assumono contorni fiabeschi e sospirati, il cui alone di misteriosità viene arricchito dai racconti dell’anziano amico di famiglia, Giuseppe, anch’egli vittima segreta dell’arcano fascino dell’Est.

Istanbul, coi suoi lezzi penetranti e pregnanti, il popolo e i colori, i costumi e lo stile di vita, ha già catturato i suoi prigionieri: i membri dell’equipaggio dell’Antonio Serra, battente bandiera italiana, ognuno per cause dissimili e accomunati dalla passione per il mare. Quella forte attrazione in quel rapporto di odio-amore che li vede imprecare a bordo, durante le tempeste, la solitudine e il silenzio e li tiene ostaggio in una “relazione d’amorosi sensi”, perché non più capaci di restare sulla terra ferma, quando lo sguardo si perde nel vuoto e si dimentica la capacità di comunicare col mondo.


Personaggi a caccia di sogni

Ogni personaggio vive grazie al racconto dell’autore, che talvolta pare fondersi col protagonista nella guarnita e meticolosa performance narrativa; il lettore avverte l’onirica proiezione nello scenario delineato, che sembra svelare alcuni meccanismi del periodo storico di riferimento.

Giugno 1939. Il viaggio ha inizio al porto di Marina di Carrara con l’incontro che segnerà il bivio nella giovane vita di Vittorino e prosegue con le vicissitudini dell’equipaggio nella lenta e lunga traversata del Mediterraneo. È durante gli anni di vita a bordo, che ognuno degli uomini “arruolati” ha sperimentato la condivisione di spazi e doveri, momenti di isolamento e riflessione, sogni abbandonati nel cassetto e chimere ossessive da inseguire.

Una di queste vittime è il capitano Ferdinando Beltramino, il quale, dopo decenni di attraversamenti nelle medesime acque, vive ancora la speranza di trovare la “sua” Ferdinandea, “l’isola-che-non-c’è”, la spiaggia di desideri e fantasie, ricca di tesori nascosti, ma soprattutto invisibile perché inesistente sulle mappe. Ne è convinto a tal punto da ricordare con maniacale precisione i luoghi di emersione dai quali deriverebbero i monili, custoditi gelosamente, che mostra a Vittorino. Il giovane diciottenne senza esperienza di imbarco, mozzo per esigenza, è catturato dalle stranezze di Beltramino, peraltro confermate dai compagni di viaggio, ma non si sente mai realmente appartenere all’equipaggio a pieno titolo. Lo svela adagio, l’autore, pigramente, quasi a non voler rivelare un finale che lascia senza fiato il lettore.


Marilena Rodi


(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 11, luglio 2008)

giovedì 11 giugno 2009

Cristianesimo e islamismo, un "rimpasto secolare"

Il documento base
della Lectio del papa
tenuta a Ratisbona


di Marilena Rodi


Benedetto XVI e un “rimpasto secolare”:
cristianesimo e islamismo. Rubbettino

«La Lectio academica di Benedetto XVI nella sua antica università di Ratisbona il 12 settembre del 2006 ha riportato in auge, malgré lui, un testo antico di notevole significato». Si apre così la Prefazione a cura di Rino Fisichella, rivisitazione dell’atavico testo e testimonianza secolare del file rouge che lega indissolubilmente la contesa tra islamismo e cristianesimo, redatto a quattro mani (ma ci verrebbe di osare “a otto mani”), Dialoghi con un Persiano, di Manuele II Paleologo, brillantemente e coraggiosamente edito da Rubbettino (Prefazione di Fisichella, Introduzione e Note a cura di Francesco Colafemmina, pp. 104, € 10,00).

Otto mani perché l’idea di pubblicare i brani integrali dei dialoghi intercorsi tra l’ultimo imperatore romano a Costantinopoli e «l’anonimo Persiano» è dello stesso curatore, che ha fedelmente tradotto dal greco i testi dei protagonisti.

Impresa non facile soprattutto per la ricostruzione storica, in cui Colafemmina non si è limitato a ripercorrere le interpretazioni di famosi maestri delle scuole di pensiero, ma ha reso identitari i ruoli svolti da Manuele II e il Persiano, un muteriz, un «uomo sapiente a cui tutti portavano rispetto». E per dirla con Fisichella: «La storia, come si sa, percorre spesso sentieri che gli stessi storici non possono determinare», citando alcuni passi dell’Introduzione: «Attraverso le contorte vie della storia, possiamo attingere al significato autentico di quest’opera soltanto dopo esserci stupiti di una dimensione spirituale tanto sublime quanto aliena dalla nostra tradizione».


L’insostenibile leggerezza dell’oratoria

La dialettica metodologica che gli interlocutori adottano, del rispettarsi reciprocamente senza interrompersi, farebbe invidia al nostro politically correct!

Il linguaggio è fermo e deciso nelle argomentazioni, mai sguaiato e privo di insulti, gli scambi dialettici sono carichi di silenzi importanti, durante i quali viene lasciato spazio all’ascolto e alla riflessione per sopraggiungere con adeguate risposte: non frutto dell’emotività, ma della meditazione prolungata.

Sia Manuele II che il Persiano sono consapevoli dell’autorevolezza del ruolo che rivestono e si lasciano coinvolgere nel dialogo, sebbene con caratteristiche differenti: con passione e convinzione l’imperatore, con distacco e quasi indifferenza il muteriz. Tanto più che agli islamici non è permesso discutere con i cristiani perché – pare – possiedano la capacità di persuasione, e il Persiano, amante della verità, non dimentica questa regola. Manuele II, dal canto suo, sottolinea la speranza innata del suo popolo e il mandato ad esso assegnato: quello di annunciare il Vangelo.

Nasce, con sublime lentezza e dialettica impareggiabile, un confronto che riconduce alla matrice delle sponde culturali e ne penetra le origini. L’origine appunto: Dio, «creatore verace di tutte le cose», ideologicamente condiviso da entrambi.

Manuele II, nobilmente, conduce il muteriz a riflettere sulla figura patriarcale di Abramo, il fondatore di Israele, riconosciuto anche dagli islamici. Abramo, uomo saggio ed “eletto”, fu scelto da Dio come capo del suo popolo; ripreso nel Corano, viene considerato l’antenato dell’etnia araba. Il passo verso la considerazione sulle Sacre Scritture è breve: chi tradusse i testi in greco ai tempi di Tolomeo se non un certo Eleazar, ispirato da Dio? Nemmeno gli ebrei ebbero da commentare.

E chi tradusse il Libro dei libri nella lingua comune degli arabi? Avendo scoperto Maometto, gli islamici adattarono i testi secondo il culto politeistico e degli idoli, prestando il fianco a dubbie interpretazioni ed entrando così in conflitto con l’ispirazione divina.

Intorno all’origine del mondo, alla creazione del cielo e della Terra, alla natura degli angeli, Manuele II interroga il muteriz sulla scelta di Dio di rendere immortali le “creature di luce”, che si precedono per ordine e grado di servizio e vicinanza a lui e che sono rimasti immobili dopo l’apostasia e la caduta di Satana. Il Persiano non crede alla perfezione e all’immortalità degli angeli: «È necessario di certo che l’intera natura, non del tutto destinata alla distruzione, avendo avuto un inizio, abbia anche la medesima fine: sicché, come in un circolo di nascita, morte e resurrezione, giunga allo stesso punto donde era partita, mutando e avvantaggiandosi della resurrezione, e divenga superiore ad ogni corruzione per il resto dell’eternità».

Da ciò, il passo verso la resurrezione, è vicino: l’imperatore romano tenta di spiegare al Persiano la vita dell’anima, immortale rispetto al corpo, che dopo la morta fisica è destinata alla sopravvivenza; il muteriz replica argomentando l’invecchiamento e la corruzione: molte cose muoiono marcendo «o, non potendo sempre opporre resistenza alla dissoluzione, scompaiono completamente».

In quanto alla legge di Mosè, Manuele II precisa: «Ciò che impedisce che la tua legge sia definita autorevolmente legge e che chi l’ha stabilita sia annoverato fra i legislatori sta proprio nel fatto che i contenuti principali di questa legge qui sono anche quelli più antichi della legislazione di Mosè»; antecedente alla legge di Maometto. Disquisendo della legge che Dio dette al suo popolo per mezzo di Mosè, l’imperatore puntualizza le virtù dei principi della legge successiva, la legge di Cristo, che con la sua ricchezza è riconosciuta superiore a qualsiasi cosa. Il Persiano, conservando la sua pacatezza dichiara: «è bella e buona la legge di Cristo e molto migliore della più antica, ma migliore di entrambe è la mia» e continua: «quella di Maometto, procedendo per così dire nel mezzo e fornendo dei precetti sopportabili e del tutto più miti […], vince su tutte le altre, dal momento che questa è la legge più equilibrata di tutte».

L’altalena delle emozioni non sfugge al lettore, catturato dalla maestria con la quale i protagonisti del “match mediatico” rimbalzano il ragionamento e le relative posizioni, scivolando quasi silenziosamente ognuno nella propria stanza ideologica. «La ragione, non la fede, è la vera protagonista dei Dialoghi», citando il Monologion del vescovo Anselmo.


La conoscenza al centro dell’evoluzione storica

Siamo alla vigilia del delicato periodo per i nuovi assetti europei.

Il 29 maggio del 1453 è una data scandita nella memoria storica: la caduta di Costantinopoli. Le armate di Maometto II conquistano l’ultimo segmento, patria di vestigia cristiane, che allaccia la nuova Turchia all’Impero romano.

È alla veglia di questo tormentato scenario di fiera espugnazione ottomana che Manuele II e il Persiano si incontrano per ragionare sulle Sacre Scritture. L’occasione è non solo concettualmente a favore dei conquistatori, ma l’ultimo imperatore cristiano non perde occasione per evocare l’esistenza della figura di Gesù di Nazareth, di Dio che entra nella storia e segna l’elemento di discontinuità, è Lui la Verità. Il muteriz non pare particolarmente colpito da questa rivelazione replicando che l’unica verità è data una volta per sempre nel corano. L’Islam, pur onorando Gesù, nega il suo vangelo come Parola di Dio offerta agli uomini per la salvezza dell’umanità e impedisce al suo regno di estendersi.

Teoricamente i Dialoghi con un Persiano di Manuele II si svolsero fra l’ottobre e il dicembre del 1391 ad Ankara, ma discordanti sono le ipotesi dei ricercatori in merito all’attendibilità dei dialoghi.

Non ci dilunghiamo su eventuali riflessioni che potrebbero scaturire dalla conoscenza dei fatti storici e dalle evoluzioni a venire, ma è quanto mai attuale esserne consapevoli: la storia ha ascritto tra le pagine ancora umide di inchiostro la Turchia in Europa. Allora, in quel 1453, i tempi erano segnati da particolarismi nazionali che vedevano Bisanzio ormai lontana dall’Impero e non più meritevole d’essere difesa.

Benedetto XVI ha ribadito più volte che «ragione e fede devono riprendere inevitabilmente il loro cammino comune». Ragion per cui rivedere il dialogo tra un imperatore cristiano e un muteriz mussulmano del XV secolo potrebbe emergere come efficace provocazione «per comprendere quanto sia decisiva la conoscenza corretta dei fenomeni».

Costantinopoli, mistica e profana, protesa fra due mondi, Oriente e Occidente, rappresentava il ponte di umanità unificata, tappa nevralgica per l’Annuncio di Cristo, ma la scissione tra potere temporale e spirituale della chiesa occidentale aveva svilito la mission cristiana in terra bizantina, sebbene in Oriente patriarca e imperatore, pur vivendo contrasti decisi, rappresentavano l’unità in Cristo.

È Santa Sofia, il simbolo religioso per eccellenza, l’obiettivo dei turchi: «Muratori non lavorate, non perdete la testa,/ lì non può starci una Moschea, i Turchi non possono pregare/ lì resterà Santa Sofia, il Grande Monastero […]».

I Dialoghi, quindi, raccontano il tentativo dell’imperatore cristiano che – profetizzando la fine del suo regno – cercava di indagare per cogliere le ragioni di quella religione che avrebbe insediato «gli spazi edificati dalla pietas cristiana dei romani, in un tempo non molto lontano».


Marilena Rodi

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 16, dicembre 2008)

Simbolismo mistico: quello che le pietre delle chiese narrano

Simbolismo mistico:
quello che le pietre
delle chiese narrano


di Marilena Rodi


Cosa nasconde l’arc
hitetture medievale.
Giuseppe Vozza editore propone i “miti”

Religione, mitologia, folklore, musica e tradizione sono gli elementi che caratterizzano la scelta dell’architettura medievale, secondo Andrea Ianniello, che, prendendo spunto da un articolo apparso sulla rivista Frammenti nel 1992, analizza la simbologia della città vecchia di Caserta per poi allargare l’indagine alla struttura architettonica delle città edificate in quell’epoca.

La corrispondenza fra animali simbolici e note musicali applicata agli edifici medievali è al centro della sua pubblicazione, Pietre che cantano. Suoni e sculture delle nostre chiese, pubblicata da Giuseppe Vozza editore (pp. 108, € 13,00), ispirata a una ricerca culturale dell’estetica e del ritualismo.


L’evoluzione del Cristianesimo

Il tempio, per esempio, scrive l’autore, «cristiano e non, deve essere costruito ad immagine del Cielo. […] Il Tempio cristiano, dunque, si fa immagine del rapporto cristiano verso il Cielo». Partendo da questo spunto, Ianniello ripercorre la storia della costruzione degli edifici sacri focalizzando l’attenzione sugli aspetti cosmologici e su quanto il Cristianesimo possa aver ereditato durante la sua evoluzione e diffusione; «il Cristianesimo non ebbe alcuna ragione di rifiutare gli elementi di queste tradizioni […]: il Cattolicesimo ha sempre affermato l’esistenza di una Rivelazione primitiva che, nonostante le degenerazioni successive, permane allo stato sporadico in tutte le tradizioni religiose».

Con lo sguardo rivolto alla storia, l’autore ricorda che il Cristianesimo ha dovuto assumere, dagli inizi, l’eredità delle confraternite artigianali, soprattutto quelle dei costruttori, legate a simbolismi artistici mescolati ad argomenti cristiani, che, anche se armonizzati secondo regole universali, calcavano le orme di credenze popolari. Il pensiero quindi si accosta all’“esoterismo cristiano”, citato ne Il Bestiario del Cristo di Louis Charbonneau-Lassay, S. Salzani e P. Zoccatelli: «per diventare cristiani bisogna talvolta essere almeno buoni pagani».

In realtà, la dimensione “cristica” è puramente spirituale e viene meno quella cosmologica, mancando la spiritualità tipica delle forme religiose precristiane e orientali. L’esoterismo cristiano nasce, in definitiva, dalla sintesi del loro simbolismo. A tal proposito scrive Louis Charbonneau-Lassay ne Le pietre misteriose del Cristo: «Alcuni fra i simbolisti di ieri e di oggi si sono stupiti e si sono domandati come sia potuto accadere che i primi maestri della fede cristiana siano stati così accoglienti nei confronti degli antichi simboli impiegati dai culti idolatri che loro stessi combattevano con così tanta foga ed asprezza».

Ianniello, infatti, analizzando la genesi architettonica delle chiese, mira a far emergere le caratteristiche di quel misticismo simbolico che si è appropriato delle cattedrali sacre. «Tali paganesimi – continua nel testo l’autore – non rigettavano affatto i precetti della Legge naturale che impone a tutti gli uomini il riconoscimento della Divinità creatrice ed onnipotente, l’esistenza dell’anima umana e della sua immortalità, la natura della Giustizia nei suoi diversi ambiti (…); il sacerdozio egizio insegnava “il mistero del Verbo creatore”, il giudizio post-mortem delle anime e la ricompensa o il castigo degli atti umani».

Tutti questi concetti sono espressi con simboli, soprattutto di «animali simbolici»; sono pervenuti alla chiesa cristiana in tale forma e sono stati assimilati proprio in virtù della loro natura simbolica.


Simbolismo mitologico e integrazione cattolica

Data l’influenza di espressioni greco-romaniche, i cristiani di quel tempo, come sottolinea il benedettino don Henry Leclercq, citato da Iannello nel testo, «grazie alle interpretazioni che essi davano dei vecchi emblemi mitologici, imposero un nuovo significato e battezzarono le più venerabili tipologie pagane; il dio Sole divenne Cristo che si eleva dalla terra nello splendore del sole».

Con l’istituzione del Cristianesimo come religione ufficiale degli imperatori di Roma, sono consacrati a santi e martiri i luoghi tradizionali di culto e la chiesa attribuisce nuovi nomi e riti a quelli praticati in precedenza, adoperando semplicemente una sostituzione. Quasi naturale conseguenza diventa il gesto automatico del segno della croce con l’acqua benedetta e ancor più automatico il gesto di “entrare in chiesa”; atti apparentemente di routine, ma che in realtà significano «“oltrepassare la soglia”, “passare la porta”». La sacralità del passaggio e della porta assume un valore solenne quando si tratta di un tempio, diviene rito: ecco perché all’entrata degli edifici sacri si piazzavano i “guardiani della soglia”, statue di arcieri, draghi, leoni o sfingi, personaggi divini come il Giano dei Romani, il dio della porta, janua, (basti pensare anche alla porta dell’anno, januarius, gennaio, che apre l’anno). «Questi guardiani della soglia avevano per compito quello di ricordare, a chi si disponeva per entrare, il carattere temibile del passo che stava per compiere nel transitare all’interno dell’ambito sacro. “Tu che entri, guarda verso il cielo”, dice un’iscrizione sulla porta d’ingresso della chiesa di Mozat».

Ianniello, ricorda a coloro che hanno avuto la possibilità di visitare chiese romaniche e gotiche, che grandissima importanza è data alle decorazioni delle porte, ma soprattutto del portale principale. Un’espressione peculiare di simbolismo: se si riflette sulla possibilità che il tempio sia un’immagine del mondo, non si può fare a meno di pensare che possa essere considerato altresì una porta aperta sull’aldilà. La porta verso il cielo. «“Io sono la porta da cui entrano le pecore. (…) Io sono la Porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo” (Gv. 10, 7-9)».

L’autore ci racconta che, il portale ha in sé due simbolismi: quello cosmico e quello mistico e che entrambi si implicano e si sostengono reciprocamente. Il mondo è una rivelazione ciclica di Dio nel tempo e nello spazio. Il cielo raffigura il movimento della vita, movimento circolare attorno al sole divino, come i pianeti e i segni zodiacali attorno al sole visibile. Lo zodiaco rappresenta gli “animali celesti” e non è inserito nel contesto casualmente: riproduce l’aspetto mitologico integrato nel Cristianesimo, contribuendo alla «crisi del mondo moderno».

Lo zodiaco è raffigurato come una ruota formata da animali (la ruota è un “ciclo”), spesso utilizzati nel simbolismo per attorniare Cristo in gloria. Sono i quattro animali, i quattro “esseri animati”, come ci insegna il latino (animalia), l’aquila, il toro, il leone e l’essere umano, a circondare il Figlio dell’uomo nella trasposizione della “Visione del carro del Signore” di Ezechiele e di San Giovanni. Ancora simboli nel nome divino Yhwh (Jehovah): la “y” corrisponde all’uomo, la “h” al leone, la “w” al toro e la seconda “h” all’aquila; dunque, se la ruota è un ciclo e l’anagramma del nome divino è inserito in una ruota (secondo la visione di Costantino), Cristo si pone al centro del cosmo, al centro della ruota, dunque al centro dello zodiaco (del cerchio degli “esseri animati”).


Note musicali e simbologia

Nella tradizione indù ad esempio, la seconda nota, “re” corrisponde al pavone, il “mi” al toro, il “fa” alla capra, il “sol” alla gru, il “la” all’uccello canterino, il “si” al cavallo pesce, il “do” all’elefante.

Ianniello parte dallo studio di Marius Schneider, Pietre che cantano, al quale si ispira la sua pubblicazione, per proporre un viaggio nel passato, alla scoperta delle correlazioni esistenti tra animali e note musicali. Schneider analizzò a fondo tre chiostri della Catalogna (San Cugat, Gerona e Ripoll) e individuò una conformità con gli inni gregoriani pietrificati, “pietre che cantano” (alla lettera), cioè composizione musicale attraverso la simbologia. Tale corrispondenza era diffusissima e assai spesso accadeva che frammenti o risonanze pietrificate fossero rappresentate, seppur non in tutte le chiese romaniche e/o gotiche fossero raffigurati inni completi. Alcune di quelle pietre che divenivano chiostri erano ispirate a santi e la pietrificazione musicale di quei luoghi, secondo Schneider, esprimeva lo scopo della guarigione.

In un excursus alquanto singolare, ma carico di osservazioni e approfondimenti, l’autore esplora l’universo medievale proponendo uno studio analitico sull’architettura di luoghi, abitudini e tradizioni. Il linguaggio è di immediata comprensione e la ricca bibliografia rende fattibile la possibilità di analizzare a fondo il tema trattato.


Marilena Rodi

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 19, marzo 2009)

martedì 2 giugno 2009

Quando la vita si aggira nella “provincia” umana..

Quando la vita si aggira
nella “provincia” umana
e i batticuori implodenti
conducono alla rinuncia

di Marilena Rodi

L'incapacità di reagire all’esistenza e l'accettazione silente:
nella raccolta di Besa editrice, un volo pindarico nell’inquietudine sociale


Un inconsueto spaccato di vita quotidiana “media”, una carrellata di esistenze “aggiunte” alla vita, il canto nostalgico della memoria levatosi da una voce fuori campo, quella di Monica Dini, autrice toscana alla sua seconda prova editoriale. Leggerezze (Besa editrice, pp. 128, € 13,00), Prefazione di Julio Monteiro Martins, in ventuno racconti brevi narra il malessere del vivere provinciale, la banalità di quel male che induce alla frustrazione, all’odio e all’incapacità di reagire, lasciando come paralizzati i protagonisti delle vicende. Questi ultimi sono tormentati dalla normalità quotidiana che “riempie” le loro vite e ne condisce il modus pensandi; sono uomini e donne angosciati, coppie sospese nel tempo e nei luoghi, generazioni che si interfacciano come estranei quasi sfuggendosi, donne sull’orlo di una maturità rinnegata e, in certi casi, ripudiata.


La sostenibile leggerezza dell’animo
Il titolo, quasi ironico, decreta una prova di identificazione del mondo interiore dell’essere umano, spesso al collaudo di vite insignificanti: è lieve, infatti, il tocco che l’autrice “impone” al fil rouge che lega una vicenda umana all’altra. «La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, nunzia dell’antichità», scriveva Cicerone nel De Oratore; un susseguirsi di eventi che firmano il canovaccio di una rappresentazione, quasi teatrale, dell’esistenza; un’impronta mai scavata nella quotidianità di soggetti che paiono trascinarsi nel tempo; personaggi comuni in situazioni limite, abbastanza vicini al punto di rottura, ma mai in grado di oltrepassarlo. «Il problema fondamentale non è se esista una vita dopo la morte, ma se esista prima» (così Giovanni Badino ne Un color bruno, citato nella pagina inaugurale da Monica Dini) e ancora: «Ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che forse ti stupirà di più, ci vuole tutta una vita per imparare a morire…», tratto da La brevità della vita di Seneca.
È lo sguardo tagliente sulla Toscana afflitta, ornata di boscaioli e casalinghe depresse, gente raminga e anziani in attesa di espiare l’ultima colpa: tutti fuoriclasse di banale umanità, che con la loro intramontabile convinzione di esseri perdenti – in fondo al cuore stesso dell’esistere – rappresentano una variante sguaiata e sottomessa della dignità.
Il volo pindarico dei desideri latenti dei protagonisti sfiora la tollerabilità di quegli usi e costumi di una società che rincorre l’evoluzione, ma resta incastrata nel bigottismo più sommesso: è l’incapacità di accettare la diversità e di svecchiare se stessi, l’immobilità di quel torpore che li avvolge.


Volti “noti” di personaggi quotidiani
Si susseguono quieti i personaggi dei racconti: l’uno alle prese con una danza improduttivamente sensuale, dinnanzi alla moglie omosessuale e all’amante, a sua volta moglie di un altro uomo “perdente”; l’altra, cinquantenne, nell’altalena svilente dell’età avanzata che si confronta con la maturità femminile di una piccola donna; l’altra ancora, perseguitata da insistenti fantasie erotiche con un barbone.
Donne prigioniere di vite coniugali monotone: una, vittima di un noto tradimento e dell’idea che «gli amori duraturi sono quelli impossibili, che il tempo ne ha paura, non li tocca»; un’altra che, per uno strano meccanismo socio-psicologico, tollera gli abusi del marito nella convinzione di non possedere alcun valore; ancora una donna che, nell’evasione disperata da un marito assente e infedele, incontra l’alter ego di un’anziana signora che, passando a miglior vita, l’abbandona nella totale solitudine.
Donne in bilico, con lo sguardo perso nel sogno di una notte, l’ennesimo, forse un incubo, nel quale vorrebbero riscattarsi dalla perdita di una persona cara.
Donne vinte dalla vigliaccheria perbenistica tipica del genitore: nonostante lo scetticismo religioso accettano che i loro figli assumano i sacramenti, poi crescendo potranno scegliere.
Donne di fronte alla scelta secolare tra amore per la famiglia e desiderio di realizzazione.


L’“eleganza” della rassegnazione
Il velo inconfondibile di accettazione si avverte alla fine, ripassando mentalmente gli episodi che pare di aver condiviso con gli attori della scena, al momento di assaporarne la consistenza: «Al di là di quello che so… C’è sempre quello che non so e mi consolo…», come recita l’apertura del capitolo La veglia.
Un’avvincente staffetta di cuori infranti, di sensibilità rese apatiche; un’affilata penna che imprime sulla carta i batticuori implodenti dell’uomo.

Marilena Rodi
(www.bottegascriptamanent.
it, anno III, n. 22, giugno 2009)

lunedì 20 aprile 2009

Comunicazione, società, nuove forme del potere..


Comunicazione, società,
nuove forme del potere:
i profondi cambiamenti
degli ultimi due decenni

di Marilena Rodi

Da Rubbettino: l’evoluzione del modus operandi della divulgazione,
le informazioni e la loro fruizione attraverso le nuove tecnologie


«Tra il 1989 e il 1991 si sono registrati due eventi che hanno cambiato radicalmente il nostro modo di vedere il mondo e contribuito a rafforzare ulteriormente l’incidenza e il significato dei processi di comunicazione all’interno dei sistemi sociali e tra di essi». Quali siano i due eventi ce lo racconta Jesús Timoteo Álvarez, docente di Giornalismo: «Il primo è la caduta del muro di Berlino, che non si limitava a dividere l’Europa in due blocchi contrapposti», «Il secondo evento epocale è stata la messa a punto nel 1991, a opera di uno scienziato britannico […], del world wide web», ne Il potere diluito. Chi governa la società di massa. Prefazione di Silvano Tagliagambe, edito da Rubbettino (pp. 416, € 22,00). Álvarez, riguardo la caduta del Muro di Berlino, cita Thomas L. Friedman, autore e giornalista di fama mondiale, secondo il quale «Nella sola Europa, la caduta del Muro ha aperto la strada alla formazione dell’Unione europea e al suo allargamento da quindici a venticinque Paesi. Ciò, nell’insieme all’adozione dell’euro come moneta comune, ha trasformato in una singola area economica una regione un tempo divisa dalla cortina di ferro». Sul world wide web Álvarez scrive: «Il web esiste grazie a programmi che mettono in comunicazione i computer sulla rete. Il web non potrebbe esistere senza internet, ma ha reso la rete sempre più utile e accessibile, perché alla gente importano le informazioni, mentre non ha alcun interesse a sapere come funzionano i computer e i cavi».

L’evoluzione storica
Il libro ripercorre gli eventi che hanno caratterizzato, negli ultimi decenni, la vita dei popoli a cui è stato reso possibile comunicare e interagire a livello planetario; un sistema senza precedenti che ha visto la riorganizzazione dei sistemi sociali e professionali, ovvero il passaggio dalla società dell’informazione alla società della conoscenza. Il fenomeno di globalizzazione dell’economia ha investito l’Europa e l’ha costretta a essere all’avanguardia nei settori nei quali è forte l’intensificarsi della concorrenza, stimolando il processo di evoluzione verso la «società della conoscenza più competitiva del mondo». Per raggiungere questo traguardo è necessario che i cittadini acquisiscano capacità e competenze tramite l’istruzione e la formazione nell’arco della vita intera.
Le riflessioni attuali che l’Unione Europea si trova a dover affrontare riguardano le sfide socioeconomiche e demografiche, collegate a una popolazione che sta invecchiando e a un numero non indifferente di adulti scarsamente qualificati, oltre che a un tasso elevato di disoccupazione. A tal proposito gli stati membri dovrebbero controllare che l’istruzione e la formazione occupino una posizione centrale nei programmi di riforma (Consiglio europeo straordinario di Lisbona del 23 e 24 marzo 2000), e che le politiche nazionali contribuiscano attivamente alla realizzazione dei livelli di riferimento e degli obiettivi del programma di lavoro.
Edmund Phelps, Premio Nobel per l’Economia del 2006, citato più avanti dall’autore, notava fin dagli anni Sessanta come «l’acquisizione di un livello avanzato di conoscenze sia condizione essenziale per innovare e per adattarsi alle nuove tecnologie. La dotazione di capitale umano assume un valore cruciale che trascende chi ne usufruisce in prima istanza: essa promuove la generazione e la diffusione di nuove idee che danno impulso al progresso tecnico».


La società della comunicazione
Quella in cui “navighiamo” pare possa identificarsi come società della comunicazione, più che società della conoscenza, e questo è reso ancor più riscontrabile soprattutto nell’organizzazione sociale e gli assetti di potere, poiché la prima, rispetto alla seconda, appare molto più caratterizzata dalla presenza di quello che qualcuno definisce “problema della svista”, ovvero quel filo invisibile che tiene strettamente connesse le cose viste alle sviste. La svista consiste nel non vedere ciò che si vede, come teorizzò Karl Marx.
Quando si parla di società della comunicazione ci si riferisce sempre più, dunque, allo sviluppo che ha dato a quest’ultima un rilievo tale da collocarla nel cuore strategico della società e che coinvolge, nel visibile, la stragrande maggioranza dei cittadini.
Il cittadino si identifica sempre più con lo spettatore che guarda la televisione e vanno assumendo importanza la semplicità, la sintesi e la facilità; in una parola: il marketing. «Il potere, attraverso il ricorso generalizzato ai mezzi di comunicazione di massa, è così sempre più “diluito” non solo perché è diffuso in modo sempre più capillare, ma in quanto dipende da fonti che sono obbligate a garantire la loro credibilità e affidabilità, che nessuno è disposto a dare più per scontate». All’atto della fruizione il soggetto crede di trovarsi in un ambiente reale: in quel momento egli vive in quella dimensione. Al di là dell’ambiente virtuale favorito dal progresso tecnologico, assistiamo alla rottura tra spettacolo e spettatore e all’annientamento del gioco di riconoscimenti e di identificazioni. Non ci meravigliamo dunque, se i media determinano l’agenda politica e i temi su cui i cittadini devono discutere, se orientano le loro preoccupazioni quotidiane e condizionano le loro scelte.
«Ciò che è escluso dalla vista non è il campo al di fuori della portata e del raggio d’azione di quest’ultima, bensì “la tenebra interna dell’esclusione”, insita nel visibile stesso perché definita dalla sua struttura e organizzazione».
Un esempio che Álvarez riprende è il caso del cormorano coperto di petrolio che aprì tutti i telegiornali del mondo come esempio dei disastri dell’invasione irachena del Kuwait: «La registrazione nascondeva, tuttavia, un piccolo dettaglio: l’uccello imbrattato non era del Kuwait, ma dell’Alaska e il petrolio del disastro non proveniva dai pozzi del Medio Oriente, ma dalla nave Exon Valdez».
In qualche misura la televisione è la responsabile più diretta del consumo di massa. Prodotti e servizi alimentari, sanitari, di pulizia ecc. hanno invaso progressivamente gli schermi favorendo l’organizzazione di un apparato forte e imponente.


La comunicazione: scienza sociale
La televisione diviene la regina del sistema, e l’industria della comunicazione che le gravita intorno è la regina dell’economia e dell’influenza sociale e politica. Così, nel cambio epocale a cavallo fra due secoli, scopriamo un mercato e una società che è molte cose: è di massa ma è anche di cittadini con una chiara coscienza dei loro diritti, è di spettatori e di lettori con una coscienza intellettuale, di consumatori eterogenei. «La comunicazione è una scienza sociale e il suo laboratorio non è ubicato negli scantinati delle università, ma nella società, nella strada, nei centri, e nelle sedi delle grandi società…».
Le strategie delle grandi società, a partire dal 2000, sono state incentrate prevalentemente sul mercato e sui cittadini; «il primo passo consiste nell’“individuare le aspettative dei consumatori”, il secondo è “farle nostre”, il terzo consiste nel “restituirle”», secondo Roberto Crispulo Goizueta, patron della Coca-Cola che negli anni Ottanta indirizzava l’azienda agli ambiti della vita che riguardavano il grande pubblico: l’orientamento al cliente.
I valori sono divenuti così una componente essenziale all’interno della produzione e dell’offerta di qualsiasi tipo di attività, prodotti o servizi ai cittadini a tal punto che la responsabilità sociale è divenuta regola, a dimostrazione che le istituzioni interagiscono con la società offrendole non solo i loro prodotti e servizi, ma anche solidarietà, recupero ambientale o storico. Il tutto cavalcando l’onda mediatica della risonanza mondiale.

Le chiavi della comunicazione
Negli anni in cui la pubblicità cominciava a farsi largo tra le varie tipologie di consumatore, l’organizzazione dell’apparato comunicativo andava regolandosi in base alle esigenze della società di massa e del cliente; nascevano nuove strategie a supporto dell’advertising e proponevano mezzi di contatto diversificati: dal marketing diretto alle arti grafiche dedicate alla pubblicità, dagli annuari e guide alla pubblicità nei punti vendita, dalla segnaletiche e insegne alle fiere, ai regali, alle sponsorizzazioni, alle carte di fidelizzazione, ai cataloghi, all’animazione.
L’autore analizza nel dettaglio il percorso evolutivo (involutivo?) che la società globale ha affrontato a partire dagli anni Settanta fino all’epoca contemporanea, con critica sottile e vena provocatoria. La cronaca è miscelata (“diluita”) a considerazioni personali in uno stile giornalistico che lo distingue. Il linguaggio è di immediata comprensione e l’ambientazione ha carattere globale.


©Marilena Rodi
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 20, aprile 2009)

mercoledì 15 aprile 2009

"Ma io per il terremoto non do nemmeno un euro…"

di Giacomo Di Girolamo

ph. M. Rodi

Scusate, ma io non darò neanche un centesimo di euro a favore di chi raccoglie fondi per le popolazioni terremotate in Abruzzo. So che la mia suona come …

… una bestemmia.
E che di solito si sbandiera il contrario, senza il pudore che la carità richiede. Ma io ho deciso. Non telefonerò a nessun numero che mi sottrarrà due euro dal mio conto telefonico, non manderò nessun sms al costo di un euro. Non partiranno bonifici, né versamenti alle poste. Non ho posti letto da offrire, case al mare da destinare a famigliole bisognose, né vecchi vestiti, peraltro ormai passati di moda.

Ho resistito agli appelli dei vip, ai minuti di silenzio dei calciatori, alle testimonianze dei politici, al pianto in diretta del premier. Non mi hanno impressionato i palinsesti travolti, le dirette no – stop, le scritte in sovrimpressione durante gli show della sera. Non do un euro. E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare.
Non do un euro perché è la beneficienza che rovina questo Paese, lo stereotipo dell’italiano generoso, del popolo pasticcione che ne combina di cotte e di crude, e poi però sa farsi perdonare tutto con questi slanci nei momenti delle tragedie. Ecco, io sono stanco di questa Italia. Non voglio che si perdoni più nulla. La generosità, purtroppo, la beneficienza, fa da pretesto. Siamo ancora lì, fermi sull’orlo del pozzo di Alfredino, a vedere come va a finire, stringendoci l’uno con l’altro. Soffriamo (e offriamo) una compassione autentica. Ma non ci siamo mossi di un centimetro.
Eppure penso che le tragedie, tutte, possono essere prevenute. I pozzi coperti. Le responsabilità accertate. I danni riparati in poco tempo. Non do una lira, perché pago già le tasse. E sono tante. E in queste tasse ci sono già dentro i soldi per la ricostruzione, per gli aiuti, per la protezione civile. Che vengono sempre spesi per fare altro. E quindi ogni volta la Protezione Civile chiede soldi agli italiani. E io dico no. Si rivolgano invece ai tanti eccellenti evasori che attraversano l’economia del nostro Paese.
E nelle mie tasse c’è previsto anche il pagamento di tribunali che dovrebbero accertare chi specula sulla sicurezza degli edifici, e dovrebbero farlo prima che succedano le catastrofi. Con le mie tasse pago anche una classe politica, tutta, ad ogni livello, che non riesce a fare nulla, ma proprio nulla, che non sia passerella.

C’è andato pure il presidente della Regione Siciliana, Lombardo, a visitare i posti terremotati. In un viaggio pagato – come tutti gli altri – da noi contribuenti. Ma a fare cosa? Ce n’era proprio bisogno?
Avrei potuto anche uscirlo, un euro, forse due. Poi Berlusconi ha parlato di “new town” e io ho pensato a Milano 2 , al lago dei cigni, e al neologismo: “new town”. Dove l’ha preso? Dove l’ha letto? Da quanto tempo l’aveva in mente?
Il tempo del dolore non può essere scandito dal silenzio, ma tutto deve essere masticato, riprodotto, ad uso e consumo degli spettatori. Ecco come nasce “new town”. E’ un brand. Come la gomma del ponte.
Avrei potuto scucirlo qualche centesimo. Poi ho visto addirittura Schifani, nei posti del terremoto. Il Presidente del Senato dice che “in questo momento serve l’unità di tutta la politica”. Evviva. Ma io non sto con voi, perché io non sono come voi, io lavoro, non campo di politica, alle spalle della comunità. E poi mentre voi, voi tutti, avete responsabilità su quello che è successo, perché governate con diverse forme - da generazioni - gli italiani e il suolo che calpestano, io non ho colpa di nulla. Anzi, io sono per la giustizia. Voi siete per una solidarietà che copra le amnesie di una giustizia che non c’è.
Io non lo do, l’euro. Perché mi sono ricordato che mia madre, che ha servito lo Stato 40 anni, prende di pensione in un anno quasi quanto Schifani guadagna in un mese. E allora perché io devo uscire questo euro? Per compensare cosa? A proposito. Quando ci fu il Belice i miei lo sentirono eccome quel terremoto. E diedero un po’ dei loro risparmi alle popolazioni terremotate.

Poi ci fu l’Irpinia. E anche lì i miei fecero il bravo e simbolico versamento su conto corrente postale. Per la ricostruzione. E sappiamo tutti come è andata. Dopo l’Irpinia ci fu l’Umbria, e San Giuliano, e di fronte lo strazio della scuola caduta sui bambini non puoi restare indifferente.
Ma ora basta. A che servono gli aiuti se poi si continua a fare sempre come prima?
Hanno scoperto, dei bravi giornalisti (ecco come spendere bene un euro: comprando un giornale scritto da bravi giornalisti) che una delle scuole crollate a L’Aquila in realtà era un albergo, che un tratto di penna di un funzionario compiacente aveva trasformato in edificio scolastico, nonostante non ci fossero assolutamente i minimi requisiti di sicurezza per farlo.
Ecco, nella nostra città, Marsala, c’è una scuola, la più popolosa, l’Istituto Tecnico Commerciale, che da 30 anni sta in un edificio che è un albergo trasformato in scuola. Nessun criterio di sicurezza rispettato, un edificio di cartapesta, 600 alunni. La Provincia ha speso quasi 7 milioni di euro d’affitto fino ad ora, per quella scuola, dove – per dirne una – nella palestra lo scorso Ottobre è caduto con lo scirocco (lo scirocco!! Non il terremoto! Lo scirocco! C’è una scala Mercalli per lo scirocco? O ce la dobbiamo inventare?) il controsoffitto in amianto.

Ecco, in quei milioni di euro c’è, annegato, con gli altri, anche l’euro della mia vergogna per una classe politica che non sa decidere nulla, se non come arricchirsi senza ritegno e fare arricchire per tornaconto.
Stavo per digitarlo, l’sms della coscienza a posto, poi al Tg1 hanno sottolineato gli eccezionali ascolti del giorno prima durante la diretta sul terremoto. E siccome quel servizio pubblico lo pago io, con il canone, ho capito che già era qualcosa se non chiedevo il rimborso del canone per quella bestialità che avevano detto.
Io non do una lira per i paesi terremotati. E non ne voglio se qualcosa succede a me. Voglio solo uno Stato efficiente, dove non comandino i furbi. E siccome so già che così non sarà, penso anche che il terremoto è il gratta e vinci di chi fa politica. Ora tutti hanno l’alibi per non parlare d’altro, ora nessuno potrà criticare il governo o la maggioranza (tutta, anche quella che sta all’opposizione) perché c’è il terremoto. Come l’11 Settembre, il terremoto e l’Abruzzo saranno il paravento per giustificare tutto.
Ci sono migliaia di sprechi di risorse in questo paese, ogni giorno. Se solo volesse davvero, lo Stato saprebbe come risparmiare per aiutare gli sfollati: congelando gli stipendi dei politici per un anno, o quelli dei super manager, accorpando le prossime elezioni europee al referendum. Sono le prime cose che mi vengono in mente. E ogni nuova cosa che penso mi monta sempre più rabbia.

Io non do una lira. E do il più grande aiuto possibile. La mia rabbia, il mio sdegno. Perché rivendico in questi giorni difficili il mio diritto di italiano di avere una casa sicura. E mi nasce un rabbia dentro che diventa pianto, quando sento dire “in Giappone non sarebbe successo”, come se i giapponesi hanno scoperto una cosa nuova, come se il know-how del Sol Levante fosse solo un’ esclusiva loro. Ogni studente di ingegneria fresco di laurea sa come si fanno le costruzioni. Glielo fanno dimenticare all’atto pratico.
E io piango di rabbia perché a morire sono sempre i poveracci, e nel frastuono della televisione non c’è neanche un poeta grande come Pasolini a dirci come stanno le cose, a raccogliere il dolore degli ultimi. Li hanno uccisi tutti, i poeti, in questo paese, o li hanno fatti morire di noia.
Ma io, qui, oggi, mi sento italiano, povero tra i poveri, e rivendico il diritto di dire quello che penso.
Come la natura quando muove la terra, d’altronde.


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