martedì 29 dicembre 2009

Italo, il re degli enotri, insediò l’Italia a Trebisacce




Si nascondono nella Piana di Sibari le stirpi arcaiche del popolo italico. il coscile propone i risultati degli ultimi scavi in un libro di archeologia



“Trebis-saxa” (“roccia”, fortificazione di Trebis) o “Trebis-axis” (“tavola”, tavoliere), o “Trapezàkion”, dal greco “tràpeza” (il castrum del periodo bizantino)?
L’etimologia del toponimo Trebisacce si presta a svariate chiavi di lettura, poiché molto dipende dalla lente con la quale si decide di osservarla e dal tipo di interpretazione che si vuole attribuire alle ricerche archeologiche eseguite dai ricercatori e dagli studiosi che si sono alternati nella documentazione del territorio.
La casa editrice il coscile propone un percorso esplorativo-conoscitivo tracciato da Tullio Masneri nel libro Archeologia di Trebisacce (pp. 288, € 13,00), pubblicazione di interesse storico-antropologico e archeologico che pone in risalto le osservazioni e gli scavi nell’area di Trebisacce, forse insediamento di una tribù bruzia, i “Bruttaces” in epoca romana, o insediamento protostorico a Broglio di Trebisacce (1700-700 a.C.) prima della fondazione di Sibari.

Testimonianza millenaria
Masneri, negli ultimi anni Novanta a cavallo con i primi del Duemila, torna a fare oggetto di studio i luoghi che raccontano le vicende dei primi popoli insediatisi nella Sibaritide, location agiata, tra mare e monti, popolata dagli enotri, preferita dai conquistatori greci e ambita dai romani.
Da alcuni rinvenimenti archeologici si ipotizza che Italo, dominatore e precursore dell’idioma italico, abbia posto domicilio in terra calabrese, stabilendo villaggi su alture a diretto contatto visivo l’uno con l’altro per favorire il controllo e la stabilità delle comunità, tendendo ad esercitare un’azione di pacificazione e di costruzione solida, che solo la venuta dei greci ha intaccato nel profondo.
L’autore, infatti, a proposito degli enotri, narra la prospettiva socio-economica che questo popolo è stato capace di offrire alla Piana di Sibari ed alle colline che le fanno da corona, valorizzandone l’eccezionale fioritura dovuta alla feracità della terra, produttiva ed aperta ai contatti con gli stranieri, prima i micenei e poi i fenici, consolidando una posizione culminante per civiltà e benessere.
Virgilio, nell’Eneide, scriveva: «C’è un luogo – i Greci lo chiamano Esperia – / terra antica, potente per armi e di fertile zolla; / gli Enotri la popolarono; ora è fama che i loro nipoti / abbian detto Italia quel popolo, dal nome del capo».
Interessante diviene dunque, il percorso proposto dall’autore alla scoperta di nuovi e avvincenti indizi autentici e alla riscoperta di quelli esistenti, permettendo, in questo modo, un parallelo fra le notizie in essere e le acquisizioni a seguito delle ultime indagini archeologiche. Emerge difatti, ancora, il dubbio che nei sotterranei dell’edificio delle scuole elementari di Trebisacce dove, nel 1948 fu scoperta una tomba greca del periodo successivo alla distruzione di Sibari, possa nascondersi qualche traccia del passato.
Curioso e intrigante è il passaggio nelle antiche civiltà: che tipo di scambi commerciali proponevano i pionieri dei mercati calabresi? Da cosa deriva la leggenda della produzione della migliore pece bruzia? Quali i segnali peculiari di una civiltà volta alla cultura femminile? E quale l’espressione artistica dei popoli alle prese con la produzione di cimeli?
Masneri propone e argomenta altresì alcuni interventi antropici sul territorio di Trebisacce e della Sibaritide, menzionando la tecnica delle anfore capovolte sotto il manto stradale, utilizzata per il drenaggio delle acque e non molto distante dall’attuale strada statale 106, antica litoranea romana, come ad esempio, in contrada Chiusa a breve distanza dal mare.
In questa contrada, nelle operazioni di scavo realizzate tra il 1986 e il 1987, sono stati individuati due edifici di pianta e dimensioni simili destinati probabilmente allo stoccaggio di anfore commerciali e riconducibili alla presenza romana in Calabria e che hanno permesso di ricostruire la storia di Trebisacce nel periodo compreso tra I e II secolo d.C.

Prospettiva futura
L’archeologia del territorio, tuttavia, può definirsi giovane perché le notizie e le novità si rincorrono annualmente e, per dirla con l’autore, «in siffatto contesto […] si cerca di tirare le somme di una ricerca che ha avuto l’ardire di mettere insieme una serie di elementi molto diversi che provengono dalla tradizione o sono emersi dagli strati del passato, con la prospettiva che le novità di oggi potranno essere smentite anche entro breve tempo, se le ricerche continueranno e verranno tentate altre strade, oltre a quelle già note».
Il linguaggio è fluido nonostante le abbondanti citazioni latine, argomentate correntemente. Lo stile è cronachistico e la narrazione è arricchita di fonti documentali non irrilevanti. Viene proposta la carta archeologica di Trebisacce con l’indicazione dei siti entro i confini comunali.
Un libro che non si legge certamente tutto d’un fiato per via delle copiose nozioni da ricordare e tenere a mente, ma che alla fine della lettura offre un quadro abbastanza completo e divertente, per certi aspetti, delle origini del territorio trebisaccese (e dell’Alto Ionio) e che incuriosisce non solo gli indigeni calabresi.

Marilena Rodi
(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 8, aprile 2008)

martedì 1 dicembre 2009

Missione educazione: la libertà sta nella cultura

Autonomia di giudizio e indipendenza ideologica: il ruolo del docente è di ispirare e orientare. Sovera Multimedia lancia uno scambio dialettico



Il mondo della scuola? Quasi una catastrofe. La classe insegnanti? Carica di responsabilità e talvolta impreparata ad affrontare gli studenti. Gli allievi? Ancora fino a un decennio fa si poteva discutere di allievi, forse. In epoca contemporanea diventa complicato e paradossale definirli tali; semmai, “domatori” di adulti (e perché no, anziani) in un sistema alla deriva.
L’istituzione, fondata con i migliori propositi per la creazione di anime liberamente ispirate a cultura e istruzione, pare stia fallendo il proprio obiettivo. Il nuovo millennio, oltre l’avvicendamento di configurazione numerica, ha concepito una generazione di giovani impreparati, arroganti e incapaci, che di accogliere l’educazione scolastica non vogliono nemmeno sentir parlare.
Ne sa qualcosa la protagonista e autrice di Donne con le palle (Sovera Multimedia, pp. 92, € 11,00), Giovanna Curone, insegnante di letteratura, storia e geografia di un istituto superiore di Roma; una donna sicura di sé e determinata a trasmettere la valenza dell’istruzione a una classe di somari che frequentano il primo anno. Reduci del tirocinio d’obbligo, si avvicendano sui banchi della scuola media di II grado malvolentieri e nemmeno troppo preoccupati di acquisire le competenze tecniche necessarie per poter svolgere la professione per la quale debbono prepararsi.

Determinazione e “genio scrivano”
Quasi una missione, l’impegno della docente si profonde per gli allievi, per i quali deve reinventare ogni giorno il modo più efficace di garantire l’apprendimento delle nozioni basilari della buona educazione e del vivere quotidiano nella società, e per i colleghi, verso i quali nutre rispetto, ma anche scetticismo per i metodi di approccio e d’insegnamento adottati. Si ritrova così, a dover escogitare sistemi maliziosi ma efficaci per entrambi.
Con gli studenti, raccontando di relazioni interpersonali con l’altro sesso, notificando comportamenti poco eleganti per le femmine e cafoni per i maschi; architettando stratagemmi fantasiosi pur di invogliarli ad esprimersi in scritti creativi, simulando gare di bravura, interrompendo brusii e dialoghi poco consoni all’ambiente, alzando la voce con il capobanda e conquistando il meritato silenzio.
Con i colleghi e superiori, grazie a colpi di genio, sfrutta la sua eccellente dote di narratrice per trasferire silenziosamente opinioni e lezioni di vita, intuendone la singolare condizione umana di sottomissione e vergogna, nonché, paradossalmente, di presunzione trionfante, che talvolta rende ciechi al bisogno di condividere sentimenti e ansie.

Figli, genitori e metodi
La missione della docente, tuttavia, coinvolge trasversalmente anche la famiglia in questo tentativo di smuovere gli studenti e di responsabilizzarli nei rapporti interpersonali. In uno dei capitoli (intitolato “Là dove un alunno azzittisce la madre”) Giovanna Curone porta alla luce la reticenza dei genitori nei confronti degli insegnanti, “inviperiti” perché convinti che essi non siano davvero in grado di fare il loro mestiere. L’episodio, ilare, per quanto insolito, vede gli studenti partecipare attivamente al gioco dello scarabeo (trovata della docente per avviare un processo naturale di impiego della lingua italiana e di quella inglese) e scatenare il caos dettato dal fervore creativo. Una madre, indispettita, si catapulta nella classe accusando senza mezzi termini la docente di adottare metodi non convenzionali e che sta assistendo ad un’inutile e perdita di tempo. Giovanna tenta di elevare la statura intellettuale della sua interlocutrice spiegandole che quanto in opera è mezzo per il raggiungimento del fine più nobile di favorire un linguaggio corretto e più articolato degli studenti. Nell’alterco senza via d’uscita interviene lo studente, figlio della donna, con un comico «A mà! Ma statte zitta…», e rientrando in classe sbatte la porta lasciandosi alle spalle le espressioni attonite delle due donne.
L’ignoranza e la superbia, talvolta, si fondono creando e coltivando pregiudizi vani e gratuiti, agevolando barriere architettoniche tra culture difformi, quando è ancora possibile parlare di culture. Più spesso è disarmante scoprire che si tratta si radicata inciviltà.
Il linguaggio è lineare, ad intermittenza, arricchito da espressioni colorite tipiche dell’ambiente giovanile, denso di esperienze reali che rendono la narrazione fluida, seppur guarnita di espressioni dialettali e turpiloqui poco chic. Lo stile torna spontaneo definirlo street di conseguenza, ma la valenza istruttiva, soprattutto per la categoria matura, ricambia degnamente la lettura rocambolesca.
Una finestra inconsueta su uno spaccato in condizioni d’indigenza che rilancia il desiderio di offrire un’altra opportunità al mondo scolastico. Del resto, come recita l’autrice nel libro: «Chi siamo noi per decidere ciò che è giusto e ciò che non lo è? Un insegnante non ha formule magiche, può solo fare il suo mestiere: tirar fuori dalle zucche vuote ciò che loro stessi non vogliono ammettere…».

Marilena Rodi

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 8, maggio 2008)