lunedì 20 aprile 2009

Comunicazione, società, nuove forme del potere..


Comunicazione, società,
nuove forme del potere:
i profondi cambiamenti
degli ultimi due decenni

di Marilena Rodi

Da Rubbettino: l’evoluzione del modus operandi della divulgazione,
le informazioni e la loro fruizione attraverso le nuove tecnologie


«Tra il 1989 e il 1991 si sono registrati due eventi che hanno cambiato radicalmente il nostro modo di vedere il mondo e contribuito a rafforzare ulteriormente l’incidenza e il significato dei processi di comunicazione all’interno dei sistemi sociali e tra di essi». Quali siano i due eventi ce lo racconta Jesús Timoteo Álvarez, docente di Giornalismo: «Il primo è la caduta del muro di Berlino, che non si limitava a dividere l’Europa in due blocchi contrapposti», «Il secondo evento epocale è stata la messa a punto nel 1991, a opera di uno scienziato britannico […], del world wide web», ne Il potere diluito. Chi governa la società di massa. Prefazione di Silvano Tagliagambe, edito da Rubbettino (pp. 416, € 22,00). Álvarez, riguardo la caduta del Muro di Berlino, cita Thomas L. Friedman, autore e giornalista di fama mondiale, secondo il quale «Nella sola Europa, la caduta del Muro ha aperto la strada alla formazione dell’Unione europea e al suo allargamento da quindici a venticinque Paesi. Ciò, nell’insieme all’adozione dell’euro come moneta comune, ha trasformato in una singola area economica una regione un tempo divisa dalla cortina di ferro». Sul world wide web Álvarez scrive: «Il web esiste grazie a programmi che mettono in comunicazione i computer sulla rete. Il web non potrebbe esistere senza internet, ma ha reso la rete sempre più utile e accessibile, perché alla gente importano le informazioni, mentre non ha alcun interesse a sapere come funzionano i computer e i cavi».

L’evoluzione storica
Il libro ripercorre gli eventi che hanno caratterizzato, negli ultimi decenni, la vita dei popoli a cui è stato reso possibile comunicare e interagire a livello planetario; un sistema senza precedenti che ha visto la riorganizzazione dei sistemi sociali e professionali, ovvero il passaggio dalla società dell’informazione alla società della conoscenza. Il fenomeno di globalizzazione dell’economia ha investito l’Europa e l’ha costretta a essere all’avanguardia nei settori nei quali è forte l’intensificarsi della concorrenza, stimolando il processo di evoluzione verso la «società della conoscenza più competitiva del mondo». Per raggiungere questo traguardo è necessario che i cittadini acquisiscano capacità e competenze tramite l’istruzione e la formazione nell’arco della vita intera.
Le riflessioni attuali che l’Unione Europea si trova a dover affrontare riguardano le sfide socioeconomiche e demografiche, collegate a una popolazione che sta invecchiando e a un numero non indifferente di adulti scarsamente qualificati, oltre che a un tasso elevato di disoccupazione. A tal proposito gli stati membri dovrebbero controllare che l’istruzione e la formazione occupino una posizione centrale nei programmi di riforma (Consiglio europeo straordinario di Lisbona del 23 e 24 marzo 2000), e che le politiche nazionali contribuiscano attivamente alla realizzazione dei livelli di riferimento e degli obiettivi del programma di lavoro.
Edmund Phelps, Premio Nobel per l’Economia del 2006, citato più avanti dall’autore, notava fin dagli anni Sessanta come «l’acquisizione di un livello avanzato di conoscenze sia condizione essenziale per innovare e per adattarsi alle nuove tecnologie. La dotazione di capitale umano assume un valore cruciale che trascende chi ne usufruisce in prima istanza: essa promuove la generazione e la diffusione di nuove idee che danno impulso al progresso tecnico».


La società della comunicazione
Quella in cui “navighiamo” pare possa identificarsi come società della comunicazione, più che società della conoscenza, e questo è reso ancor più riscontrabile soprattutto nell’organizzazione sociale e gli assetti di potere, poiché la prima, rispetto alla seconda, appare molto più caratterizzata dalla presenza di quello che qualcuno definisce “problema della svista”, ovvero quel filo invisibile che tiene strettamente connesse le cose viste alle sviste. La svista consiste nel non vedere ciò che si vede, come teorizzò Karl Marx.
Quando si parla di società della comunicazione ci si riferisce sempre più, dunque, allo sviluppo che ha dato a quest’ultima un rilievo tale da collocarla nel cuore strategico della società e che coinvolge, nel visibile, la stragrande maggioranza dei cittadini.
Il cittadino si identifica sempre più con lo spettatore che guarda la televisione e vanno assumendo importanza la semplicità, la sintesi e la facilità; in una parola: il marketing. «Il potere, attraverso il ricorso generalizzato ai mezzi di comunicazione di massa, è così sempre più “diluito” non solo perché è diffuso in modo sempre più capillare, ma in quanto dipende da fonti che sono obbligate a garantire la loro credibilità e affidabilità, che nessuno è disposto a dare più per scontate». All’atto della fruizione il soggetto crede di trovarsi in un ambiente reale: in quel momento egli vive in quella dimensione. Al di là dell’ambiente virtuale favorito dal progresso tecnologico, assistiamo alla rottura tra spettacolo e spettatore e all’annientamento del gioco di riconoscimenti e di identificazioni. Non ci meravigliamo dunque, se i media determinano l’agenda politica e i temi su cui i cittadini devono discutere, se orientano le loro preoccupazioni quotidiane e condizionano le loro scelte.
«Ciò che è escluso dalla vista non è il campo al di fuori della portata e del raggio d’azione di quest’ultima, bensì “la tenebra interna dell’esclusione”, insita nel visibile stesso perché definita dalla sua struttura e organizzazione».
Un esempio che Álvarez riprende è il caso del cormorano coperto di petrolio che aprì tutti i telegiornali del mondo come esempio dei disastri dell’invasione irachena del Kuwait: «La registrazione nascondeva, tuttavia, un piccolo dettaglio: l’uccello imbrattato non era del Kuwait, ma dell’Alaska e il petrolio del disastro non proveniva dai pozzi del Medio Oriente, ma dalla nave Exon Valdez».
In qualche misura la televisione è la responsabile più diretta del consumo di massa. Prodotti e servizi alimentari, sanitari, di pulizia ecc. hanno invaso progressivamente gli schermi favorendo l’organizzazione di un apparato forte e imponente.


La comunicazione: scienza sociale
La televisione diviene la regina del sistema, e l’industria della comunicazione che le gravita intorno è la regina dell’economia e dell’influenza sociale e politica. Così, nel cambio epocale a cavallo fra due secoli, scopriamo un mercato e una società che è molte cose: è di massa ma è anche di cittadini con una chiara coscienza dei loro diritti, è di spettatori e di lettori con una coscienza intellettuale, di consumatori eterogenei. «La comunicazione è una scienza sociale e il suo laboratorio non è ubicato negli scantinati delle università, ma nella società, nella strada, nei centri, e nelle sedi delle grandi società…».
Le strategie delle grandi società, a partire dal 2000, sono state incentrate prevalentemente sul mercato e sui cittadini; «il primo passo consiste nell’“individuare le aspettative dei consumatori”, il secondo è “farle nostre”, il terzo consiste nel “restituirle”», secondo Roberto Crispulo Goizueta, patron della Coca-Cola che negli anni Ottanta indirizzava l’azienda agli ambiti della vita che riguardavano il grande pubblico: l’orientamento al cliente.
I valori sono divenuti così una componente essenziale all’interno della produzione e dell’offerta di qualsiasi tipo di attività, prodotti o servizi ai cittadini a tal punto che la responsabilità sociale è divenuta regola, a dimostrazione che le istituzioni interagiscono con la società offrendole non solo i loro prodotti e servizi, ma anche solidarietà, recupero ambientale o storico. Il tutto cavalcando l’onda mediatica della risonanza mondiale.

Le chiavi della comunicazione
Negli anni in cui la pubblicità cominciava a farsi largo tra le varie tipologie di consumatore, l’organizzazione dell’apparato comunicativo andava regolandosi in base alle esigenze della società di massa e del cliente; nascevano nuove strategie a supporto dell’advertising e proponevano mezzi di contatto diversificati: dal marketing diretto alle arti grafiche dedicate alla pubblicità, dagli annuari e guide alla pubblicità nei punti vendita, dalla segnaletiche e insegne alle fiere, ai regali, alle sponsorizzazioni, alle carte di fidelizzazione, ai cataloghi, all’animazione.
L’autore analizza nel dettaglio il percorso evolutivo (involutivo?) che la società globale ha affrontato a partire dagli anni Settanta fino all’epoca contemporanea, con critica sottile e vena provocatoria. La cronaca è miscelata (“diluita”) a considerazioni personali in uno stile giornalistico che lo distingue. Il linguaggio è di immediata comprensione e l’ambientazione ha carattere globale.


©Marilena Rodi
(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 20, aprile 2009)

mercoledì 15 aprile 2009

"Ma io per il terremoto non do nemmeno un euro…"

di Giacomo Di Girolamo

ph. M. Rodi

Scusate, ma io non darò neanche un centesimo di euro a favore di chi raccoglie fondi per le popolazioni terremotate in Abruzzo. So che la mia suona come …

… una bestemmia.
E che di solito si sbandiera il contrario, senza il pudore che la carità richiede. Ma io ho deciso. Non telefonerò a nessun numero che mi sottrarrà due euro dal mio conto telefonico, non manderò nessun sms al costo di un euro. Non partiranno bonifici, né versamenti alle poste. Non ho posti letto da offrire, case al mare da destinare a famigliole bisognose, né vecchi vestiti, peraltro ormai passati di moda.

Ho resistito agli appelli dei vip, ai minuti di silenzio dei calciatori, alle testimonianze dei politici, al pianto in diretta del premier. Non mi hanno impressionato i palinsesti travolti, le dirette no – stop, le scritte in sovrimpressione durante gli show della sera. Non do un euro. E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare.
Non do un euro perché è la beneficienza che rovina questo Paese, lo stereotipo dell’italiano generoso, del popolo pasticcione che ne combina di cotte e di crude, e poi però sa farsi perdonare tutto con questi slanci nei momenti delle tragedie. Ecco, io sono stanco di questa Italia. Non voglio che si perdoni più nulla. La generosità, purtroppo, la beneficienza, fa da pretesto. Siamo ancora lì, fermi sull’orlo del pozzo di Alfredino, a vedere come va a finire, stringendoci l’uno con l’altro. Soffriamo (e offriamo) una compassione autentica. Ma non ci siamo mossi di un centimetro.
Eppure penso che le tragedie, tutte, possono essere prevenute. I pozzi coperti. Le responsabilità accertate. I danni riparati in poco tempo. Non do una lira, perché pago già le tasse. E sono tante. E in queste tasse ci sono già dentro i soldi per la ricostruzione, per gli aiuti, per la protezione civile. Che vengono sempre spesi per fare altro. E quindi ogni volta la Protezione Civile chiede soldi agli italiani. E io dico no. Si rivolgano invece ai tanti eccellenti evasori che attraversano l’economia del nostro Paese.
E nelle mie tasse c’è previsto anche il pagamento di tribunali che dovrebbero accertare chi specula sulla sicurezza degli edifici, e dovrebbero farlo prima che succedano le catastrofi. Con le mie tasse pago anche una classe politica, tutta, ad ogni livello, che non riesce a fare nulla, ma proprio nulla, che non sia passerella.

C’è andato pure il presidente della Regione Siciliana, Lombardo, a visitare i posti terremotati. In un viaggio pagato – come tutti gli altri – da noi contribuenti. Ma a fare cosa? Ce n’era proprio bisogno?
Avrei potuto anche uscirlo, un euro, forse due. Poi Berlusconi ha parlato di “new town” e io ho pensato a Milano 2 , al lago dei cigni, e al neologismo: “new town”. Dove l’ha preso? Dove l’ha letto? Da quanto tempo l’aveva in mente?
Il tempo del dolore non può essere scandito dal silenzio, ma tutto deve essere masticato, riprodotto, ad uso e consumo degli spettatori. Ecco come nasce “new town”. E’ un brand. Come la gomma del ponte.
Avrei potuto scucirlo qualche centesimo. Poi ho visto addirittura Schifani, nei posti del terremoto. Il Presidente del Senato dice che “in questo momento serve l’unità di tutta la politica”. Evviva. Ma io non sto con voi, perché io non sono come voi, io lavoro, non campo di politica, alle spalle della comunità. E poi mentre voi, voi tutti, avete responsabilità su quello che è successo, perché governate con diverse forme - da generazioni - gli italiani e il suolo che calpestano, io non ho colpa di nulla. Anzi, io sono per la giustizia. Voi siete per una solidarietà che copra le amnesie di una giustizia che non c’è.
Io non lo do, l’euro. Perché mi sono ricordato che mia madre, che ha servito lo Stato 40 anni, prende di pensione in un anno quasi quanto Schifani guadagna in un mese. E allora perché io devo uscire questo euro? Per compensare cosa? A proposito. Quando ci fu il Belice i miei lo sentirono eccome quel terremoto. E diedero un po’ dei loro risparmi alle popolazioni terremotate.

Poi ci fu l’Irpinia. E anche lì i miei fecero il bravo e simbolico versamento su conto corrente postale. Per la ricostruzione. E sappiamo tutti come è andata. Dopo l’Irpinia ci fu l’Umbria, e San Giuliano, e di fronte lo strazio della scuola caduta sui bambini non puoi restare indifferente.
Ma ora basta. A che servono gli aiuti se poi si continua a fare sempre come prima?
Hanno scoperto, dei bravi giornalisti (ecco come spendere bene un euro: comprando un giornale scritto da bravi giornalisti) che una delle scuole crollate a L’Aquila in realtà era un albergo, che un tratto di penna di un funzionario compiacente aveva trasformato in edificio scolastico, nonostante non ci fossero assolutamente i minimi requisiti di sicurezza per farlo.
Ecco, nella nostra città, Marsala, c’è una scuola, la più popolosa, l’Istituto Tecnico Commerciale, che da 30 anni sta in un edificio che è un albergo trasformato in scuola. Nessun criterio di sicurezza rispettato, un edificio di cartapesta, 600 alunni. La Provincia ha speso quasi 7 milioni di euro d’affitto fino ad ora, per quella scuola, dove – per dirne una – nella palestra lo scorso Ottobre è caduto con lo scirocco (lo scirocco!! Non il terremoto! Lo scirocco! C’è una scala Mercalli per lo scirocco? O ce la dobbiamo inventare?) il controsoffitto in amianto.

Ecco, in quei milioni di euro c’è, annegato, con gli altri, anche l’euro della mia vergogna per una classe politica che non sa decidere nulla, se non come arricchirsi senza ritegno e fare arricchire per tornaconto.
Stavo per digitarlo, l’sms della coscienza a posto, poi al Tg1 hanno sottolineato gli eccezionali ascolti del giorno prima durante la diretta sul terremoto. E siccome quel servizio pubblico lo pago io, con il canone, ho capito che già era qualcosa se non chiedevo il rimborso del canone per quella bestialità che avevano detto.
Io non do una lira per i paesi terremotati. E non ne voglio se qualcosa succede a me. Voglio solo uno Stato efficiente, dove non comandino i furbi. E siccome so già che così non sarà, penso anche che il terremoto è il gratta e vinci di chi fa politica. Ora tutti hanno l’alibi per non parlare d’altro, ora nessuno potrà criticare il governo o la maggioranza (tutta, anche quella che sta all’opposizione) perché c’è il terremoto. Come l’11 Settembre, il terremoto e l’Abruzzo saranno il paravento per giustificare tutto.
Ci sono migliaia di sprechi di risorse in questo paese, ogni giorno. Se solo volesse davvero, lo Stato saprebbe come risparmiare per aiutare gli sfollati: congelando gli stipendi dei politici per un anno, o quelli dei super manager, accorpando le prossime elezioni europee al referendum. Sono le prime cose che mi vengono in mente. E ogni nuova cosa che penso mi monta sempre più rabbia.

Io non do una lira. E do il più grande aiuto possibile. La mia rabbia, il mio sdegno. Perché rivendico in questi giorni difficili il mio diritto di italiano di avere una casa sicura. E mi nasce un rabbia dentro che diventa pianto, quando sento dire “in Giappone non sarebbe successo”, come se i giapponesi hanno scoperto una cosa nuova, come se il know-how del Sol Levante fosse solo un’ esclusiva loro. Ogni studente di ingegneria fresco di laurea sa come si fanno le costruzioni. Glielo fanno dimenticare all’atto pratico.
E io piango di rabbia perché a morire sono sempre i poveracci, e nel frastuono della televisione non c’è neanche un poeta grande come Pasolini a dirci come stanno le cose, a raccogliere il dolore degli ultimi. Li hanno uccisi tutti, i poeti, in questo paese, o li hanno fatti morire di noia.
Ma io, qui, oggi, mi sento italiano, povero tra i poveri, e rivendico il diritto di dire quello che penso.
Come la natura quando muove la terra, d’altronde.


http://www.gennarocarotenuto.it/7133-ma-io-per-il-terremoto-non-do-nemmeno-un-euro/

sabato 11 aprile 2009

Agnese Moro, l’industria della cultura è in mano di pochi


Sulla “normalità” di suo padre e sulla cultura. Lei crede che i servitori dello Stato attuali possano essere paragonati a quelli dell’epoca?
“Se per servitori dello Stato intendiamo le persone che spendono la loro vita per il bene pubblico e non solo i politici, e cioè tutti quelli che rendono possibile che lo stato vada avanti, io penso che ci sia un grandissimo senso, anche oggi, di partecipazione della costruzione di qualche cosa, di dare un proprio contributo per il bene di tutti. Penso che siano abbastanza uguali”.

I servitori dello Stato che lavorano dietro le quinte, all’ombra dei politici, molto spesso restano senza identità. Ma i grandi politici dell’epoca possono essere paragonati a quelli attuali?
” Al di là dell’importanza che la generazione di mio padre attribuiva alla cultura, c’è anche un tema che riguarda la dedizione, cioè l’idea che la tua vita è al servizio di qualche cosa di positivo, che deve tornare a tutti, che non è tua, che tu la spendi.. ecco, questo tema della dedizione mi sembra abbastanza inesistente in questo momento”.

La cultura rende liberi. Cultura oggi è sinonimo di devianza dell’informazione. Come crede che si possa far rifiorire la cultura ideologica nei giovani? Siamo al Festival internazionale del giornalismo e molti giovani sono venuti con la spinta emotiva di voler conoscere, sfondare i portoni della conoscenza e capire come funziona il mondo dell’informazione e soprattutto come relazionarsi..
“Io penso che tutta l’industria culturale italiana sia molto complessa e che sia nelle mani di pochi, però credo che ci sia un immenso spazio per le persone che amano davvero l’informazione libera, vera, per dare il loro contributo. In fondo si sta affermando sempre di più il peso e il valore dell’informazione che si fa su internet, che è certamente un mezzo più libero rispetto ai mezzi tradizionali di cultura. Penso che un giovane possa avere la sicurezza che se è preparato, un modo, la strada, l’ambiente, lo trova. Siamo sul crinale nuovo che verrà perché tutti vogliamo e in quel quadro l’informazione avrà un peso fortissimo”.

Marilena Rodi

http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=478

Carta stampata, la crisi è nella qualità


La crisi economico-finanziaria mondiale ha influito in qualche modo sulla diffusione della carta stampata in Italia? Diciamoci la verità: il momento di congiuntura ha il suo peso, ma non è l’unica causa. Il giornalismo va rilanciato nella qualità, non solo nella “comunicazione”.
La seconda giornata del Festival internazionale del giornalismo, cospicua di incontri e dibattiti con al centro la questione informazione di qualità e/o quantità, si arricchisce dello scambio “amichevole” e ironico degli “elefanti del quinto potere”. Alla tavola rotonda “Il futuro dei giornali di carta” intervengono Alessandro Brignone, direttore della Federazione italiana editori di giornali, Lorenzo Del Boca, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Ruben Razzante, della Fondazione Ugo Bordoni, Stephan Russ-Mohl, direttore European journalism observatory, e Dante Ciliani, presidente dell’Ordine dei giornalisti Umbria.
Inutile nascondersi dietro un dito, l’urgenza imperativa che il giornalismo italiano riconosce ma stenta a focalizzare è il valore aggiunto dell’informazione integrale, indagata e onesta.
Se da un lato la società dei profitti, con le sue regole di economicità, e i mezzi di massa, con la capacità di infiltrarsi in tutte le case degli italiani, hanno prodotto e favorito l’immediatezza e la gratuità delle fonti, dall’altro, la carta stampata non ha avuto la prontezza di adeguarsi all’evoluzione del pubblico di riferimento, e dovendo rincorrere le logiche di utilità per la sopravvivenza, ha dovuto piegarsi allo sterminio dell’immunità da un certo tipo di “notizia” (o gossip?).
Quelle che un tempo erano le note a pie’ di lista degli appunti di viaggio degli inviati, le curiosità frivole sui protagonisti delle vicende, oggi diventano i titoli dei pezzi.
Cosa è accaduto al giornalismo? Si continua a fare informazione o ci si intrattiene nell’inchiostro delle rotative in attesa che la notizia giunga tramite un comunicato stampa, o una rassegna Ansa?
Gli attempati relatori tirano in ballo cifre e statistiche e così si scopre (ma non era certo mistero) che in Italia solo sei milioni di persone leggono i quotidiani, mentre in Giappone si viaggia sui trentadue!
Colpa di internet? L’intuizione geniale sta nel saper cogliere le potenzialità degli strumenti e anticipare gli andamenti del mercato: l’età media dei fruitori dei mezzi di comunicazione tradizionali è straordinariamente alta, questo vuol dire che i giovani seguono tendenze diverse, si affidano alla rete, un po’ informale ed estremamente interattiva. Colpisce come in Italia, negli ultimi sei mesi, l’alfabetizzazione informatica sia arrivata tramite Facebook.
La carta stampata, come molti dei media tradizionali, ancora si crogiola nell’autoreferenzialità..
Del Boca stesso lancia la provocazione: è la qualità del giornalismo che deve migliorare, e per migliorare occorre investire sulle risorse umane, ma diventa improbabile se gli editori stessi investono molto poco! Brignone gli fa eco ricordando che il problema sostanziale, nel nostro paese, è che le persone non sono abituate a leggere; siamo (tristemente?) un popolo mediterraneo, occupiamo il “tempo libero” alla tv, in vacanza, o informandoci sugli aspetti “creativi” delle notizie (chiacchiericcio). Il dato sugli abbonamenti la dice lunga: 9% quotidiani, 20% riviste.
Come uscire dalla crisi economica che è soprattutto crisi di fiducia del popolo italiano?
Una soluzione potrebbe essere l’adeguamento alla modernità, ma anche una educazione ai media. Dove, meglio che nelle scuole, si può favorire sensibilizzazione?
Il cerchio si chiude.

Marilena Rodi

http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=849

Il giornalismo e le aziende: cane da guardia o cane da compagnia?


Girotondi e capriole di una (non)notizia, redazionali in cambio di spazi pubblicitari, editori (im)puri e giornalisti servili, colossi del potere economico e comunicati delle aziende “passate” per informazione di attualità.. i comunicatori se le inventano di tutti i colori pur di persuadere la pubblica opinione (o di massa?) sulle strategie aziendali. La notizia, impacchettata negli uffici stampa delle società, viene girata alle redazioni dei giornali che devono solo provvedere, molto spesso, a copia/incollare il contenuto e a pubblicarla.

Alla tavola rotonda “Il giornalismo e le aziende: cane da guardia o cane da compagnia”, Marie-Jeanne Husset, 60 Millions de consommateurs, Gerardo Orsini, capo ufficio stampa Enel, Luca Primavera, direttore Fondazione Foè, Alessio Rocchi, Tg1, Roberto Sommella, vicedirettore Milano Finanza, e Andrea Vianello, Mi manda Rai Tre, si confrontano sull’influenza del potere economico nella divulgazione delle notizie in Italia.

Roberto Sommella ha “svelato” i retroscena delle proprietà editoriali delle testate autorevoli nel Belpaese e lo scenario “rivelato” ha dimostrato ancora una volta quanto il fruitore (consumatore di informazione) resti all’oscuro del valzer di poltrone.

Al giornalismo cosa resta dunque? Pigrizia, superficialità, malafede: ma davvero i professionisti della notizia si lasciano indurre dai “giochi già fatti”? Caso Parmalat: perché le informazioni dei mesi precedenti il crack erano confortanti e lontane dal prevedere il collasso finanziario? Per i giornalisti non dovrebbe essere pane quotidiano la ricerca dello scoop? Cosa è scivolato sul piano inclinato dell’indifferenza? «Molto spesso nemmeno noi riusciamo a comprendere i giochi di potere: le grandi strategie vengono decise nelle stanze dei bottoni alle quali noi non possiamo accedere perché non abbiamo gli strumenti», commenta Vianello, che con la trasmissione Mi manda Rai Tre tenta di fornire un servizio ai cittadini denunciando truffe.

Alcune aziende, tuttavia, favorendo un rapporto “vicino al cliente”, sono orientate alla comunicazione partecipata: sono i consumatori a cogliere i pro e i contro dei prodotti o dei servizi erogati e a condividere gli sviluppi evolutivi degli stessi. Alcune però.. e manco fosse un caso, Enel, sponsor ufficiale del festival, si è lasciata coinvolgere abbastanza volentieri nella chiacchierata.

Basta varcare la soglia d’oltralpe per apprendere che i cugini francesi sono organizzati in maniera “leggermente” diversa: una parte della stampa costantemente si dedica all’analisi dei marchi, testando i prodotti e proponendo una diagnosi completa delle forze e delle debolezze degli stessi. Marie-Jeanne Husset precisa che il magazine da lei diretto è a digiuno da inserzioni pubblicitarie e guarda all’interesse del consumatore stimolando la consapevolezza dell’effetto propaganda e svolgendo a tutti gli effetti un servizio pubblico. Ma soprattutto è indipendentemente dalle correnti politiche e dalle autorità economiche.

La conversazione, inevitabilmente, si sposta sul fattore discernimento partecipativo del popolo: in Italia alcune trasmissioni televisive cercano di smuovere le coscienze denunciando ad alta voce misfatti e magagne, ma la conclusione è che il giorno dopo, nelle strade, non scoppia la ribellione!

Facebook, Twitter, e social network: ecco le nuove frontiere


La comunicazione, nel 2009, si chiama Facebook, Twitter, blog e social network, e i giovani pare abbiano sposato il concept di questi strumenti godendone appieno l’interattività.

Il Festival internazionale del giornalismo non si fa mancare le frontiere globali della comunicazione e da Spagna e Inghilterra giungono, confortanti, le notizie di “usabilità” di questi mezzi innovativi e tutti da scoprire che la rete ha visto nascere e consolidarsi in brevissimo tempo, tanto da essere diventati attrezzi del mestiere per chi, l’informazione la mastica ogni giorno.

Alla tavola rotonda “Piccolo è bello! Anche per i grandi”, alla quale hanno partecipato Julio Alonso, fondatore e Ceo WeblogsSl.com, John Byrne, direttore Business Week online, Luca De Biase, direttore Nòva24, e Luca Conti, creatore di Pandemia ed esperto new media, il segreto di Pulcinella svelato è la creazione delle comunità online. Il campanello d’allarme suonato per la carta stampata, non a caso, denuncia la comunicazione unilaterale dei giornali e mette in evidenza l’esigenza dei “consumatori” di “entrare” nell’informazione, di guadagnare il proprio spazio per manifestare il proprio pensiero e, molto spesso, la propria identità.

Come si conquistano i lettori, i mercati e i grandi media in rete?

Nel calderone di internet si immergono blogger, giornalisti, manager d’azienda, studenti, professionisti e inappetenti della rete.. ma una volta imbeccato un sito (spesso tramite il motore di ricerca Google) come si fa a fidelizzare l’utenza?

Rispondono Julio Alonso e John Byrne, esponendo le loro esperienze; il principio comune denominatore è prestare ascolto alle voci virtuali per dare loro identità, costruendo insieme il prodotto finale. È la domanda che fa l’offerta. E questo dato potrebbe risultare interessante per gli economisti. I consumatori cominciano ad essere stanchi di subire passivamente.

Parola d’ordine: aggregazione. Ovvero: accordi di partnership con altre fonti di informazione per garantire all’utenza un’ampia fruizione. Significa lavorare con migliaia di blogger al mese, favorire gli scambi e i pareri con l’audience, far emergere i bisogni reali, stringere accordi e inventarsi soluzioni innovative costantemente.

Nei social media la gente tende a creare relazioni indebolendo il ruolo dei provider, dunque, una soluzione può essere il Business Exchange, l’aggregazione di tutte le componenti: creata una microcomunità di persone e lanciati gli argomenti da approfondire, i frutti dell’intelligenza collettiva sono insuperabili. Dayle Gilbert scriveva: «Nell’audience c’è sempre qualcuno che ne capisce molto di più».

Marilena Rodi

http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=1025

Giancarlo Siani. “Una storia ancora da raccontare”, appello al risveglio delle coscienze


Il caldo raggio di sole con cui si è svegliata stamani Perugia è il preludio di una giornata carica di emozioni. L’ultima giornata del Festival internazionale del giornalismo si apre con la terza edizione del premio giornalistico “Una storia ancora da raccontare”, organizzato in collaborazione con l’Associazione “Ilaria Alpi” e dedicato a Giancarlo Siani, il giornalista de Il Mattino, ucciso a Napoli il 23 settembre 1985, ancora ventiseienne.

In sala si respira desiderio di riscatto, i volti sono assorti e il silenzio regna sovrano; la premiazione del concorso è presieduta da Lirio Abbate, Ansa, Alessandro Cataldo, direttore generale UniCredit Banca di Roma, Rosario La Rossa, fondatore dell’Associazione Voci di Scampia. Ottavio Lucarelli, presidente Ordine dei giornalisti della Campania, Roberto Morrione, presidente Libera informazione, Mauro Sarti, presidente Associazione “Ilaria Alpi”, e Paolo Siani, fratello di Giancarlo Siani, nella commozione dei presenti, giunti da tutta Italia, per commemorare il coraggio del giovane cronista caduto sotto i colpi della camorra, nella ricerca della verità.

Giancarlo viveva in un’epoca ancora lontana dall’innovazione tecnologica e tutti i giorni si dedicava all’ascolto, alle relazioni interpersonali, alle lunghe passeggiate, all’incontro con persone che in qualche modo potevano raccontargli le vicende “nascoste” dei quartieri napoletani. Si impegnava con fervore nelle inchieste di camorra, cercava spunti di riflessione e tracce da seguire alla conquista di una verità da descrivere e riportare, per amor di cronaca e di riscatto di un popolo oppresso dalla connivenza tra amministratori e malavitosi. Ricercava, studiava, approfondiva, era instancabile. Al giorno della morte aveva scritto mille articoli, «patrimonio di qualità» come ricorda Morrione, oggi racchiusi in un libro dossier, donato ai finalisti del concorso. Siani aveva una non comune capacità di sintesi, acquisiva le fonti sulla strada e possedeva la straordinaria dote di “guardare avanti”.

Paolo Siani, fratello di Giancarlo, evidenzia l’importanza della comunicazione, del fare informazione vera, e l’opportunità, oggi a disposizione dei giovani, di utilizzare i mezzi innovativi e di divulgazione che la rete offre: «Il mondo è aperto, chi se ne frega se la notizia del festival non è sui giornali. La comunicazione oggi è un’altra cosa».. Visibilmente commosso, sottolinea quanto sia essenziale mantenere viva la coscienza, come cittadini e come, soprattutto, giornalisti.

Cataldo lancia un appello «Noi abbiamo ancora un debito non pagato con Giancarlo. A Napoli viviamo ancora nello stesso modo [...] Io chiedo aiuto ai giovani di buona volontà a dare aiuto ai meno giovani che ormai non hanno più il coraggio di denunciare, di dire.. e dire fa crescere la voglia di ribellarsi».

Morrione torna sulle manifestazioni organizzate da Libera informazione e sullo sforzo di coinvolgere le amministrazioni pubbliche e i cittadini sul tema della connivenza, dell’ingerenza e del sopruso ad opera delle mafie. Non solo Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, ma anche Umbria.. perché il fenomeno non si limita solo alle regioni del Sud, ma divampa nel silenzio e nell’indifferenza ormai consolidata della popolazione, rassegnata e addormentata.

Il premio per la categoria stampa va ad Alberto Solmi; per la categoria documentario a Sandro Di Domenico e Federico Tosi.

Marilena Rodi

http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=1098

Giornalismo d’approfondimento, il caso Terra!


«Io non voglio raccontare la verità, voglio solo offrire gli strumenti con cui la gente possa costruire la propria idea». Così, Sandro Provvisionato, giornalista professionista dal 1979, curatore con Toni Capuozzo del settimanale televisivo Terra!, spiega la valutazione, mai casuale, nella costruzione di un reportage.
Nella terza giornata del Festival internazionale del giornalismo si è discusso di “spedizioni”, inchieste e approfondimenti giornalistici, scelte editoriali e prodotti di nicchia.
Terra! nasce nel 2001, da un progetto di Carlo Rossella – prima del trasferimento a Panorama – poi affidato, anche se solo temporaneamente, a Lamberto Sposini; infine consegnato alla cura dei due giornalisti, attualmente curatori del programma: «Sposini se ne interessò molto marginalmente e alla fine restammo io e Toni», commenta Provvisionato. La redazione del programma è composta da sole undici persone e ogni puntata costa cinquantamila euro: «L’inchiesta è dispendiosa e l’azienda per cui lavoro è una televisione commerciale, non ha la tendenza a sperperare le risorse, ma dal momento che la trasmissione funziona, vive», continua.
Il nome Terra!, con il punto esclamativo, spiega, si ispira all’esclamazione di Cristoforo Colombo alla scoperta del nuovo mondo; il programma di approfondimento mette al centro le storie di attualità e cerca di andarne a fondo.
Ma come si costruisce un’inchiesta “tendenzialmente” vera, o meglio, funzionale a quello che è l’obiettivo dell’informazione giornalistica?
Il settimanale pone molta attenzione alla memoria storica, al valore dei fatti accaduti, ai fenomeni “secolari”; Provvisionato sottolinea quanto sia necessario un approccio umile agli argomenti e alle situazioni; quanto sia essenziale rinsaldare i rapporti con i collaboratori locali dei paesi in cui si voglia sviluppare il reportage e quanta attenzione occorre porre nella relazione con gli ascoltatori: «Generalmente, su dieci storie, due o tre, arrivano dal suggerimento del pubblico», e incalza: «Le pieghe della storia mettono in luce profili di personaggi particolari […] la gente è soddisfatta di un prodotto non fazioso, credibile e autorevole».
Il pubblico in sala scalpita e molteplici sono le domande relative alla logistica di reportage, tempi di realizzazione, sentimenti che caratterizzano momenti particolarmente emozionanti, scelta dei collaboratori e delle fonti, valutazioni opportune sulle riprese e sulla successiva messa in onda.. «Quando devo optare per la trasmissione di immagini particolarmente crudeli mi pongo una regola: “Questa immagine aggiunge qualcosa a quello che ho già raccontato?” Se la risposta è no, preferisco tagliare».
Molta cura va dedicata al montaggio: il contenuto, dice, senza un’adeguata cornice, spesso non funziona. Ma chi sceglie le musiche? Solitamente il giornalista che ha realizzato il servizio oppure l’operatore col quale si è consolidato il feeling.
Una volta selezionato l’argomento del reportage, lo staff si dedica alla ricerca bibliografica; la storia, tuttavia, nasce in loco, con il contributo della comunità locale. È indispensabile vivere l’approccio alla vicenda con spirito curioso e mai pregiudiziale.

Marilena Rodi

http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=852

L’attualità di Aldo Moro negli scritti giornalistici


«Senza verità e giustizia, la nostra democrazia, è come se poggiasse sulle sabbie mobili».
Si apre con una citazione di Aldo Moro, ispirata a libertà, verità e onesta intellettuale, la presentazione del libro di Antonello Di Mario, L’attualità di Aldo Moro negli scritti giornalistici (1937-1978), Prefazione di Nicola Mancino, Introduzione di Agnese Moro, edito da Tullio Piranti (pp. 170, € 12,00), in programma nella prima giornata del Festival internazionale del giornalismo.
La pubblicistica di Aldo Moro, da Azione Fucina a Studium, a Ricerca, a La Rassegna, Pensiero e Vita, a Il Giorno, alla “scrittura perseguitata” delle lettere dei cinquantacinque giorni di prigionia, al centro della tavola rotonda, alla quale partecipano l’autore, Emanuele Bordello, presidente della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), Agnese Moro, figlia dello statista, Enzo Quaratino, capo della redazione delle Cronache Italiane dell’Agenzia Ansa a Roma, e Ferdinando Treggiari, professore associato di Storia del diritto medievale e moderno all’Università di Perugia.
Aldo Moro, un grande uomo politico così come un educatore di spessore, un filosofo ispirato e un buon padre di famiglia: docente universitario, parlamentare, costituente, ministro, capo del governo, segretario e presidente del consiglio nazionale Dc, non fece mai mancare le sue lezioni all’università: i giovani erano la sua linfa vitale, il termine di confronto e un modo per non invecchiare nelle idee, la salvezza dall’abitudine e dalla sclerosi.
Moro, ancora nel 1977, dimorava nella visione ottimistica della società italiana, aveva fiducia nel popolo e nell’energia che esso potesse trasmettere, era il suo interlocutore – perché prestava attenzione a tutti – e credeva fermamente nella democrazia sociale. Si adoperò nel tentativo di mettere insieme democristiani e comunisti e, probabilmente, il massimo sacrificio sconta questa chimerica visione di responsabilità civica e morale. Spontanea emerge la riflessione sulla classe dirigente di allora, come sull’attuale: quella incapacità di ascoltare davvero le esigenze della gente e l’arroganza di porsi in posizione di dominanza.
Il libro ripercorre le tappe fulcrali della pubblicistica del grande statista vibrando sulle note umane del cristiano alla ricerca costante della verità e della sobrietà, imperativo ancora attuale per i giornalisti: «l’eroismo dell’azione non è rilevante se non è preparato dalla conquista delle idee».
Agnese Moro, terzogenita del presidente, chiedendo di ricordare gli uomini della scorta di via Fani, gli unici che non hanno voluto lasciarlo solo, ricorda che suo padre «tutte le mattina, alle 7.30 usciva per andare a “prendere la comunione”»; un aspetto di umanità che accompagna Aldo Moro, un uomo “normale” e di grande cultura, che aveva scelto la libertà ideologica, «la maturità di giudizio e la chiarezza di obiettivi».
L’enigma e i segreti che velano l’intera vicenda del “Caso Moro” non sono caduti nemmeno in occasione del trentennale dalla morte, nel 2008. I testamenti dello statista sono stati resi noti solo nel 1990, dodici anni dopo, e il trasferimento all’Archivio di stato, dopo deviazione delle carte, ha permesso la trasparenza di alcuni documenti.. alcuni, appunto. Sull’archivio privato di Moro, depositato in via Savoia 66, resta ancora il mistero. Ma di sicuro la vicenda non si chiude con i cinquantacinque giorni: la “scrittura perseguitata” (le lettere) sono emblema della libertà interiore, dell’intelligenza e della straordinaria lucidità dell’“ostaggio secolare”, che nonostante la prigionia non ha mai smesso di inviare messaggi di consacrazione ideologica. Cosa accadeva agli “uomini di stato” in quel periodo? Papa Paolo VI, Papa Montini, fu l’unico a esporsi per la salvezza di una vita umana? La questione di stato era più forte della liberazione di Moro? Interrogativi che restano congelati all’ultimo segmento degli anni Settanta e che potrebbero essere sciolti solo dopo rilettura per interpretazione di quelle lettere.
L’autore riprende Maritain quando ricorda il Moro alla vigilia del Fascismo, l’epoca della clandestinità delle idee e la necessità di uscire dal silenzio: ragione di stato e ragione personale, l’uomo delle istituzioni è superiore alle istituzioni ed esempio di libertà.
Di Mario riflette sulla crisi contingente e guarda al futuro con slancio positivo, possibilista: l’intervallo congiunturale nel quale il Belpaese è caduto nuovamente non può che stimolare un miglioramento. La storia si ripete..

Marilena Rodi

http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=482

David Sassoli, il giornalismo può rendere liberi..


Il vicedirettore del Tg1, Davide Sassoli, ha accettato l’invito del Festival internazionale del giornalismo, e dopo il suo intervento si concede al nostro taccuino

La deontologia del giornalismo, ovvero: il giornalismo è davvero al servizio dei cittadini?
“Potrebbe esserlo, è uno strumento di crescita dell’opinione pubblica, anzi, è lo strumento moderno per la formazione dell’opinione pubblica e quindi ha questa vocazione di essere uno strumento al servizio dei cittadini. Questo non vuol dire essere servizio pubblico perché quelle magari sono delle regole che in un mercato poi si danno a degli strumenti particolari. La vocazione di servizio pubblico è in questo, cioè nella capacità del giornalis
mo di formare opinione, e in questo credo che al di là degli strumenti, i quotidiani, la televisione, internet e quant’altro, nel giornalismo ci sia forte, sia un po’ la premessa del giornalismo. D’altra parte se questo vale nella formazione dell’opinione pubblica, poi vale anche nei contenuti, cioè nel fatto che il giornalismo è servizio pubblico perché da la possibilità di conoscere anche meglio quello che avviene attorno a noi”.

Informazione, divulgazione e comunicazione. Come si pone il giornalismo nell’ambito di queste tre vocazioni della comunicazione in senso lato? Cioè: la comunicazione viene interpretata come il comunicare o l’essere comunicativi, la divulgazione come rendere un’informazione o divulgare un’informazione, l’informazione vuol essere una semplice informazione o una proposta di formazione?
” Un giornalismo che non divulga non è un giornalismo. Diventa un racconto privato”.

Da qualche decennio si parla di un giornalismo e di un’informazione pilotata..
“L’informazione subisce tutte le tentazioni che ci stanno attorno e che stanno intorno all’attività giornalistica: il modello d’impresa, il valore dell’economia, della politica.. però questo è diverso. Un giornalismo senza capacità di divulgazione non è giornalismo”.

Però da qualche decennio purtroppo, piuttosto che un giornalismo d’informazione viene fatto un giornalismo di divulgazione di quello che si vuole divulgare.. E torniamo alla valenza dell’informazione, della divulgazione e del giornalismo e della comunicazione.
“Cioè vuoi dire che nei regimi totalitari non c’è giornalismo?”

Potrebbe essere se guardassimo all’aspetto ideologico di cos’è il totalitarismo..
” È un regime militare ad esempio: dove c’è la censura non c’è giornalismo.. questo?”

Una censura che potrebbe essere a favore del regime che in quel momento governa, se governa.. o una sorta di favoritismo nei confronti di chi, dal popolo..
“E allora rientriamo nella qualità giornalistica”.

Ci parli della qualità del giornalismo..
“Nella qualità giornalistica le pressioni, le censure, le violazioni, fanno del giornalismo un’attività al servizio di.. ma non è detto che non sia giornalismo…”

La cultura rende liberi..
“La cultura rende liberi, il giornalismo può rendere liberi. Non è detto che sia sempre in grado di farlo. Anzi, dove la libertà di stampa o di informazione o di parola è in qualche modo messa a rischio, generalmente parliamo di regimi che la comunicazione la sanno usare molto bene”.

Siamo all’interno di questo bellissimo contenitore che è il Festival internazionale del giornalismo. La domanda nasce spontanea: il festival è popolato di tanti giovani che aspirano a intraprendere questa professione. Fermo restando che la situazione oggi è un po’ compressa e che bisogna sgomitare per riuscire ad acchiappare il sogno di diventare giornalisti.. Lei se fosse più giovane, oggi che cosa farebbe?
“Oltre a cambiare mestiere? Io penso che probabilmente, se devo teorizzare poco e parlare da un punto di vista personale, farei una cernita sugli strumenti vecchi e nuovi del giornalismo”.

Userebbe di più la rete?
“I dati che ci arrivano sono tutti in quella direzione. Il giornalismo avrà sempre più bisogno di quel tipo di strumento. Tutti gli strumenti che noi abbiamo usato, sui quali ci siamo allenati, che abbiamo conosciuto, che ancora oggi usiamo, in realtà tra dieci anni saranno un’altra cosa. Saranno come le vecchie tipografie al piombo di quando io ho iniziato a fare giornalismo, che erano bellissime ma sono un pezzo di archeologia industriale”.

Social network o blog?
” Secondo me tutte e due. Non vorrei che sugli strumenti della rete avvenisse quello che è avvenuto per la televisione: è meglio il satellitare, il digitale, il digitale terrestre o la televisione generalista? In realtà tutte queste possibilità valgono per quello che è il contenuto dell’informazione che vuoi trasmettere. Gli strumenti non sono altro che il mezzo per trasmettere contenuti. Gutemberg è morto povero, invece ha inventato la rivoluzione. Chi ha messo contenuti nella tipografia di Gutemberg è diventato molto ricco. Perché, quando con quello strumento per cui lui è entrato nella storia ma è morto povero, qualcuno ha cominciato a tradurre la Bibbia in volgare, è diventato ricco. E le grandi tipografie del centro e nord Europa sono state talmente ricche per due-tre secoli. Cioè erano aziende importantissime. Questo per dire che è il contenuto che fa la differenza, non è lo strumento, il mezzo. Se uno non lo riempie di contenuti, la tecnologia è povera”.

Giornalismo. Pratica di strada o scuola di giornalismo nella formazione di un giovane giornalista?
” Tutte e due perché in realtà, oggi, a differenza della mia generazione che si allenava, imparava stando nei giornali, in redazione, oggi gli strumenti sono più sofisticati, il mondo è diverso, le capacità di riuscire a essere interattivi sono diverse. Secondo me è bene sia l’uno che l’altro”.

Marilena Rodi

http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=655

Alcuni sopravvivono..


di Giovanni Badino

Alcuni sopravvivono
e trovano delle vie
e vivono, sbilenchi, ma spesso
con ruoli
in mezzo a cadaveri che ambulano.
E loro cercano delle vie
in mezzo a chi non le ha mai avute
devono restare attenti
a non rinunciare
perché nulla li incoraggia
quale che sia la loro via,
idraulico
scienziato
ignorante
devono puntare a vivere
a tenere la testa fuori dei flutti
in mezzo a chi la tiene china sotto
e si vanta che non respira,
e ti lancia sguardo vuoto
con quello vantando
che è morto.
Ma tu devi respirare
e fatichi a tenere
la testa fuori
e sei solo
solo.
Lasciati andare,
ti dicono,
tieni la testa sotto
è un attimo
un attimo e tutto finisce.
E tu sai
che non devi,
non sai perché,
devi spingere la testa fuori
respirare aria piena di goccioline,
ogni pochi secondi
prendere fiato,
trattenerlo,
immergere la testa,
guardare sotto
tutti gli altri sospesi
galleggianti
a faccia in giù, tranquilli
fermi
immoti.
E tu
devi respirare
respirare
in attesa.
Non sai di cosa.
Un lutto freddo

di Paolo Sorrentino

TEMPERA (L'Aquila) - Sono tutti morti. Anche i vivi. I cadaveri sono stati coperti con un velo e i vivi sono stati svelati. Sono cadute le pareti delle loro case e chiunque può frugare nella loro intimità. Attraverso una finestra si sbircia come voyeur, ma quando sono le mura a non esserci più, allora si smette di spiare. Si condivide. Si scorgono bagni e boiler, accappatoi, uccelli impagliati, televisori a schermo piatto, quadri, collage di fotografie di fidanzati, stampanti di computer, bottiglie di plastica. Basta solo arrampicarsi lungo le stradine del centro storico dell'Aquila. Incustodite e deserte.

Tutto è incustodito e deserto. Tutti possono vedere e fare tutto. Per poi scoprire troppo presto che non si può fare niente. Solo guardare dentro le case. Squassate in sezione, come certe vecchie case delle bambole. Come in una delle immagini più famose di "Germania anno zero". Le case dell'Aquila sono case di Barbie, ma tutte ricoperte di un sottile velo di polvere. Un'imbalsamazione degli oggetti. Che li invecchia di colpo. Mentre, poche ore fa, viveva tutto. Viveva dentro i sorrisi e dentro le parole che, in un attimo, sono state annientate. Per questo è tutto morto. Perché nessuno parla, nessuno ride, e anche i pianti sono brevi e improvvisi, a volume ridotto, appartati e composti. Sono pianti di una gente orgogliosa che, questa è l'impressione, non è abituata a piangere. Dal momento che anche il pianto sa essere una forma di spettacolo, ma lo spettacolo è un repertorio che appare del tutto estraneo alla dignità di queste persone.

I vivi non hanno più niente. Non hanno le case, ma, soprattutto, non hanno l'interno delle loro case, non possono più afferrare quella visione d'insieme fatta d'oggetti, odori, che compongono la vita e la quotidianità. Non hanno i punti di riferimento minimi che attrezzano gli individui per la sopravvivenza al dolore. Hanno solo i morti. Anche per questo sono morti. E hanno un fiume indefinito d'estranei che si aggira per la loro città. Perlopiù in divisa. E anche questi estranei, eroici e tenaci, sembrano muoversi in una sorta di lutto attivo. Ma sempre di lutto. Mentre gli abitanti, nella loro sovrumana compostezza, sembrano attraversati da una forma dolorosa ancora sconosciuta. Un lutto freddo. Che incute un rispetto assoluto. E nessuno, neanche per sbaglio, si sogna di tradire il rispetto per il loro lutto. Una famiglia piange davanti alla casa dello studente e le televisioni vincono l'irresistibile tentazione. Li lasciano in pace.

Una delle ragazze più belle viste negli ultimi dieci anni attraversa un gruppo di almeno cinquanta giovani in divisa. Nessuno commenta. Nessuno solleva uno sguardo di troppo su di lei. Ciascuno ha ritrovato il rispetto e la dignità. Nell'orgia del dolore, il mondo va come dovrebbe andare.

E poi regna la paura, perché niente è finito e tutto è solo cominciato. Tutti i pensieri, anche quelli più elementari, sono violentati dalle scosse d'assestamento. La paura e il dolore, uniti e inscindibili, formano un'unica entità. Un'entità insopportabile. Che congela questo lutto, per farsi cosa attonita, ed impressionante.

E, su tutto, il silenzio. Un silenzio nuovo e indefinibile. Interrotto, di tanto in tanto, da un elicottero lontano. Da un aereo militare.
E tutti a comporre lo stesso pensiero, ma nessuno lo comunica, perché è banale: la sensazione di un'altra, più piccola, ma simile, guerra mondiale.
A intervalli regolari, solo il rumore delle ruspe; le braccia meccaniche, oltre i tetti sfondati, raspano nelle macerie, per poi fermarsi ex abrupto. Allora i vigili del fuoco riprendono a muoversi con cautela e fatica. E l'interruzione delle ruspe porta tutti sullo stesso, ossessivo concetto: ci sono altri morti. Perché pare tramontata l'idea di trovare i vivi. Così dicono i cani. Le rare volte che si parla, si parla delle unità cinofile. I cani, sono loro che "bonificano" le zone. Sono loro che, momentaneamente, stabiliscono e qualificano, in maniera affidabile e concreta, un'idea di speranza.

Frugano in mezzo alle macerie e odorano.
I vivi a lutto frugano in mezzo alle macerie e sprofondano nuovamente nell'intimità della gente, ma più in dettaglio questa volta. Una vicinanza scandalosa. Ed escono fuori vecchie cartelle della tombola, ecocardiogrammi, borse di donne anziane, scarpe spaiate, album fotografici di una felicità che pare preistorica e i volontari della protezione civile raccolgono tutto dentro enormi buste. Con un'accortezza commovente. Perché promette una parziale restituzione alla vita, una volta trovati i legittimi proprietari. E poi spunta un crocefisso da pochi soldi, uno di quelli che sormontano brutti letti matrimoniali. Un volontario raccatta dello spago e lo attacca ad un albero. La cosa non colpisce, non smuove nessuno. È un gesto che richiederebbe pensieri e interpretazioni simboliche appena più complesse, che nessuno è in grado né ha voglia di fare.

Ancora silenzio, fantasmagorico. C'è il silenzio di certe prime teatrali, un attimo prima che si apra il sipario. Anche i molti, con lo sguardo vacuo, e l'orecchio appeso al cellulare, sono muti. Telefonano, ma sembra che non parlino. E puoi anche dubitare che ascoltino. S'intuisce solo una serie ininterrotta, feroce, di squilli senza risposta.

Le persone sono tutte mute, eppure cortesi. C'è una gentilezza silenziosa. Come dovrebbe essere il mondo, anche lontano dalle tragedie.
Le ruspe attaccano e si fermano di nuovo. Si sente solo il motore acceso di un'ambulanza in attesa di niente. Non arriverà nessuno. Neanche la delusione. L'autista spegne il motore.

Nelle strade del centro storico, adiacenti a via XX settembre, un solo, sordido rumore, è spietato e incessante. Quello dell'acqua delle tubature divelte. Piccoli rivoli che scrosciano. Per poi perire, appena ci si allontana di pochi passi. È come un lento disgelo. Ma senza il candore della neve in montagna. Qui, quello che un tempo doveva essere immacolato e prezioso, è diventato residuo. Insensato e senza possibilità d'uso.
Dopo l'ennesimo silenzio, ancora il rumore della paura. Sono le 19 e 45 di martedì sette aprile. Una scossa violentissima. Scappano tutti. Poco dopo arriva un uomo con gli occhiali e dice che è stata trovata una ragazza sotto le macerie. Viva. Anche i cani sbagliano.

http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/cronaca/terremoto-nord-roma-1/racconto-sorrentino/racconto-sorrentino.html