giovedì 11 giugno 2009

Cristianesimo e islamismo, un "rimpasto secolare"

Il documento base
della Lectio del papa
tenuta a Ratisbona


di Marilena Rodi


Benedetto XVI e un “rimpasto secolare”:
cristianesimo e islamismo. Rubbettino

«La Lectio academica di Benedetto XVI nella sua antica università di Ratisbona il 12 settembre del 2006 ha riportato in auge, malgré lui, un testo antico di notevole significato». Si apre così la Prefazione a cura di Rino Fisichella, rivisitazione dell’atavico testo e testimonianza secolare del file rouge che lega indissolubilmente la contesa tra islamismo e cristianesimo, redatto a quattro mani (ma ci verrebbe di osare “a otto mani”), Dialoghi con un Persiano, di Manuele II Paleologo, brillantemente e coraggiosamente edito da Rubbettino (Prefazione di Fisichella, Introduzione e Note a cura di Francesco Colafemmina, pp. 104, € 10,00).

Otto mani perché l’idea di pubblicare i brani integrali dei dialoghi intercorsi tra l’ultimo imperatore romano a Costantinopoli e «l’anonimo Persiano» è dello stesso curatore, che ha fedelmente tradotto dal greco i testi dei protagonisti.

Impresa non facile soprattutto per la ricostruzione storica, in cui Colafemmina non si è limitato a ripercorrere le interpretazioni di famosi maestri delle scuole di pensiero, ma ha reso identitari i ruoli svolti da Manuele II e il Persiano, un muteriz, un «uomo sapiente a cui tutti portavano rispetto». E per dirla con Fisichella: «La storia, come si sa, percorre spesso sentieri che gli stessi storici non possono determinare», citando alcuni passi dell’Introduzione: «Attraverso le contorte vie della storia, possiamo attingere al significato autentico di quest’opera soltanto dopo esserci stupiti di una dimensione spirituale tanto sublime quanto aliena dalla nostra tradizione».


L’insostenibile leggerezza dell’oratoria

La dialettica metodologica che gli interlocutori adottano, del rispettarsi reciprocamente senza interrompersi, farebbe invidia al nostro politically correct!

Il linguaggio è fermo e deciso nelle argomentazioni, mai sguaiato e privo di insulti, gli scambi dialettici sono carichi di silenzi importanti, durante i quali viene lasciato spazio all’ascolto e alla riflessione per sopraggiungere con adeguate risposte: non frutto dell’emotività, ma della meditazione prolungata.

Sia Manuele II che il Persiano sono consapevoli dell’autorevolezza del ruolo che rivestono e si lasciano coinvolgere nel dialogo, sebbene con caratteristiche differenti: con passione e convinzione l’imperatore, con distacco e quasi indifferenza il muteriz. Tanto più che agli islamici non è permesso discutere con i cristiani perché – pare – possiedano la capacità di persuasione, e il Persiano, amante della verità, non dimentica questa regola. Manuele II, dal canto suo, sottolinea la speranza innata del suo popolo e il mandato ad esso assegnato: quello di annunciare il Vangelo.

Nasce, con sublime lentezza e dialettica impareggiabile, un confronto che riconduce alla matrice delle sponde culturali e ne penetra le origini. L’origine appunto: Dio, «creatore verace di tutte le cose», ideologicamente condiviso da entrambi.

Manuele II, nobilmente, conduce il muteriz a riflettere sulla figura patriarcale di Abramo, il fondatore di Israele, riconosciuto anche dagli islamici. Abramo, uomo saggio ed “eletto”, fu scelto da Dio come capo del suo popolo; ripreso nel Corano, viene considerato l’antenato dell’etnia araba. Il passo verso la considerazione sulle Sacre Scritture è breve: chi tradusse i testi in greco ai tempi di Tolomeo se non un certo Eleazar, ispirato da Dio? Nemmeno gli ebrei ebbero da commentare.

E chi tradusse il Libro dei libri nella lingua comune degli arabi? Avendo scoperto Maometto, gli islamici adattarono i testi secondo il culto politeistico e degli idoli, prestando il fianco a dubbie interpretazioni ed entrando così in conflitto con l’ispirazione divina.

Intorno all’origine del mondo, alla creazione del cielo e della Terra, alla natura degli angeli, Manuele II interroga il muteriz sulla scelta di Dio di rendere immortali le “creature di luce”, che si precedono per ordine e grado di servizio e vicinanza a lui e che sono rimasti immobili dopo l’apostasia e la caduta di Satana. Il Persiano non crede alla perfezione e all’immortalità degli angeli: «È necessario di certo che l’intera natura, non del tutto destinata alla distruzione, avendo avuto un inizio, abbia anche la medesima fine: sicché, come in un circolo di nascita, morte e resurrezione, giunga allo stesso punto donde era partita, mutando e avvantaggiandosi della resurrezione, e divenga superiore ad ogni corruzione per il resto dell’eternità».

Da ciò, il passo verso la resurrezione, è vicino: l’imperatore romano tenta di spiegare al Persiano la vita dell’anima, immortale rispetto al corpo, che dopo la morta fisica è destinata alla sopravvivenza; il muteriz replica argomentando l’invecchiamento e la corruzione: molte cose muoiono marcendo «o, non potendo sempre opporre resistenza alla dissoluzione, scompaiono completamente».

In quanto alla legge di Mosè, Manuele II precisa: «Ciò che impedisce che la tua legge sia definita autorevolmente legge e che chi l’ha stabilita sia annoverato fra i legislatori sta proprio nel fatto che i contenuti principali di questa legge qui sono anche quelli più antichi della legislazione di Mosè»; antecedente alla legge di Maometto. Disquisendo della legge che Dio dette al suo popolo per mezzo di Mosè, l’imperatore puntualizza le virtù dei principi della legge successiva, la legge di Cristo, che con la sua ricchezza è riconosciuta superiore a qualsiasi cosa. Il Persiano, conservando la sua pacatezza dichiara: «è bella e buona la legge di Cristo e molto migliore della più antica, ma migliore di entrambe è la mia» e continua: «quella di Maometto, procedendo per così dire nel mezzo e fornendo dei precetti sopportabili e del tutto più miti […], vince su tutte le altre, dal momento che questa è la legge più equilibrata di tutte».

L’altalena delle emozioni non sfugge al lettore, catturato dalla maestria con la quale i protagonisti del “match mediatico” rimbalzano il ragionamento e le relative posizioni, scivolando quasi silenziosamente ognuno nella propria stanza ideologica. «La ragione, non la fede, è la vera protagonista dei Dialoghi», citando il Monologion del vescovo Anselmo.


La conoscenza al centro dell’evoluzione storica

Siamo alla vigilia del delicato periodo per i nuovi assetti europei.

Il 29 maggio del 1453 è una data scandita nella memoria storica: la caduta di Costantinopoli. Le armate di Maometto II conquistano l’ultimo segmento, patria di vestigia cristiane, che allaccia la nuova Turchia all’Impero romano.

È alla veglia di questo tormentato scenario di fiera espugnazione ottomana che Manuele II e il Persiano si incontrano per ragionare sulle Sacre Scritture. L’occasione è non solo concettualmente a favore dei conquistatori, ma l’ultimo imperatore cristiano non perde occasione per evocare l’esistenza della figura di Gesù di Nazareth, di Dio che entra nella storia e segna l’elemento di discontinuità, è Lui la Verità. Il muteriz non pare particolarmente colpito da questa rivelazione replicando che l’unica verità è data una volta per sempre nel corano. L’Islam, pur onorando Gesù, nega il suo vangelo come Parola di Dio offerta agli uomini per la salvezza dell’umanità e impedisce al suo regno di estendersi.

Teoricamente i Dialoghi con un Persiano di Manuele II si svolsero fra l’ottobre e il dicembre del 1391 ad Ankara, ma discordanti sono le ipotesi dei ricercatori in merito all’attendibilità dei dialoghi.

Non ci dilunghiamo su eventuali riflessioni che potrebbero scaturire dalla conoscenza dei fatti storici e dalle evoluzioni a venire, ma è quanto mai attuale esserne consapevoli: la storia ha ascritto tra le pagine ancora umide di inchiostro la Turchia in Europa. Allora, in quel 1453, i tempi erano segnati da particolarismi nazionali che vedevano Bisanzio ormai lontana dall’Impero e non più meritevole d’essere difesa.

Benedetto XVI ha ribadito più volte che «ragione e fede devono riprendere inevitabilmente il loro cammino comune». Ragion per cui rivedere il dialogo tra un imperatore cristiano e un muteriz mussulmano del XV secolo potrebbe emergere come efficace provocazione «per comprendere quanto sia decisiva la conoscenza corretta dei fenomeni».

Costantinopoli, mistica e profana, protesa fra due mondi, Oriente e Occidente, rappresentava il ponte di umanità unificata, tappa nevralgica per l’Annuncio di Cristo, ma la scissione tra potere temporale e spirituale della chiesa occidentale aveva svilito la mission cristiana in terra bizantina, sebbene in Oriente patriarca e imperatore, pur vivendo contrasti decisi, rappresentavano l’unità in Cristo.

È Santa Sofia, il simbolo religioso per eccellenza, l’obiettivo dei turchi: «Muratori non lavorate, non perdete la testa,/ lì non può starci una Moschea, i Turchi non possono pregare/ lì resterà Santa Sofia, il Grande Monastero […]».

I Dialoghi, quindi, raccontano il tentativo dell’imperatore cristiano che – profetizzando la fine del suo regno – cercava di indagare per cogliere le ragioni di quella religione che avrebbe insediato «gli spazi edificati dalla pietas cristiana dei romani, in un tempo non molto lontano».


Marilena Rodi

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 16, dicembre 2008)

Simbolismo mistico: quello che le pietre delle chiese narrano

Simbolismo mistico:
quello che le pietre
delle chiese narrano


di Marilena Rodi


Cosa nasconde l’arc
hitetture medievale.
Giuseppe Vozza editore propone i “miti”

Religione, mitologia, folklore, musica e tradizione sono gli elementi che caratterizzano la scelta dell’architettura medievale, secondo Andrea Ianniello, che, prendendo spunto da un articolo apparso sulla rivista Frammenti nel 1992, analizza la simbologia della città vecchia di Caserta per poi allargare l’indagine alla struttura architettonica delle città edificate in quell’epoca.

La corrispondenza fra animali simbolici e note musicali applicata agli edifici medievali è al centro della sua pubblicazione, Pietre che cantano. Suoni e sculture delle nostre chiese, pubblicata da Giuseppe Vozza editore (pp. 108, € 13,00), ispirata a una ricerca culturale dell’estetica e del ritualismo.


L’evoluzione del Cristianesimo

Il tempio, per esempio, scrive l’autore, «cristiano e non, deve essere costruito ad immagine del Cielo. […] Il Tempio cristiano, dunque, si fa immagine del rapporto cristiano verso il Cielo». Partendo da questo spunto, Ianniello ripercorre la storia della costruzione degli edifici sacri focalizzando l’attenzione sugli aspetti cosmologici e su quanto il Cristianesimo possa aver ereditato durante la sua evoluzione e diffusione; «il Cristianesimo non ebbe alcuna ragione di rifiutare gli elementi di queste tradizioni […]: il Cattolicesimo ha sempre affermato l’esistenza di una Rivelazione primitiva che, nonostante le degenerazioni successive, permane allo stato sporadico in tutte le tradizioni religiose».

Con lo sguardo rivolto alla storia, l’autore ricorda che il Cristianesimo ha dovuto assumere, dagli inizi, l’eredità delle confraternite artigianali, soprattutto quelle dei costruttori, legate a simbolismi artistici mescolati ad argomenti cristiani, che, anche se armonizzati secondo regole universali, calcavano le orme di credenze popolari. Il pensiero quindi si accosta all’“esoterismo cristiano”, citato ne Il Bestiario del Cristo di Louis Charbonneau-Lassay, S. Salzani e P. Zoccatelli: «per diventare cristiani bisogna talvolta essere almeno buoni pagani».

In realtà, la dimensione “cristica” è puramente spirituale e viene meno quella cosmologica, mancando la spiritualità tipica delle forme religiose precristiane e orientali. L’esoterismo cristiano nasce, in definitiva, dalla sintesi del loro simbolismo. A tal proposito scrive Louis Charbonneau-Lassay ne Le pietre misteriose del Cristo: «Alcuni fra i simbolisti di ieri e di oggi si sono stupiti e si sono domandati come sia potuto accadere che i primi maestri della fede cristiana siano stati così accoglienti nei confronti degli antichi simboli impiegati dai culti idolatri che loro stessi combattevano con così tanta foga ed asprezza».

Ianniello, infatti, analizzando la genesi architettonica delle chiese, mira a far emergere le caratteristiche di quel misticismo simbolico che si è appropriato delle cattedrali sacre. «Tali paganesimi – continua nel testo l’autore – non rigettavano affatto i precetti della Legge naturale che impone a tutti gli uomini il riconoscimento della Divinità creatrice ed onnipotente, l’esistenza dell’anima umana e della sua immortalità, la natura della Giustizia nei suoi diversi ambiti (…); il sacerdozio egizio insegnava “il mistero del Verbo creatore”, il giudizio post-mortem delle anime e la ricompensa o il castigo degli atti umani».

Tutti questi concetti sono espressi con simboli, soprattutto di «animali simbolici»; sono pervenuti alla chiesa cristiana in tale forma e sono stati assimilati proprio in virtù della loro natura simbolica.


Simbolismo mitologico e integrazione cattolica

Data l’influenza di espressioni greco-romaniche, i cristiani di quel tempo, come sottolinea il benedettino don Henry Leclercq, citato da Iannello nel testo, «grazie alle interpretazioni che essi davano dei vecchi emblemi mitologici, imposero un nuovo significato e battezzarono le più venerabili tipologie pagane; il dio Sole divenne Cristo che si eleva dalla terra nello splendore del sole».

Con l’istituzione del Cristianesimo come religione ufficiale degli imperatori di Roma, sono consacrati a santi e martiri i luoghi tradizionali di culto e la chiesa attribuisce nuovi nomi e riti a quelli praticati in precedenza, adoperando semplicemente una sostituzione. Quasi naturale conseguenza diventa il gesto automatico del segno della croce con l’acqua benedetta e ancor più automatico il gesto di “entrare in chiesa”; atti apparentemente di routine, ma che in realtà significano «“oltrepassare la soglia”, “passare la porta”». La sacralità del passaggio e della porta assume un valore solenne quando si tratta di un tempio, diviene rito: ecco perché all’entrata degli edifici sacri si piazzavano i “guardiani della soglia”, statue di arcieri, draghi, leoni o sfingi, personaggi divini come il Giano dei Romani, il dio della porta, janua, (basti pensare anche alla porta dell’anno, januarius, gennaio, che apre l’anno). «Questi guardiani della soglia avevano per compito quello di ricordare, a chi si disponeva per entrare, il carattere temibile del passo che stava per compiere nel transitare all’interno dell’ambito sacro. “Tu che entri, guarda verso il cielo”, dice un’iscrizione sulla porta d’ingresso della chiesa di Mozat».

Ianniello, ricorda a coloro che hanno avuto la possibilità di visitare chiese romaniche e gotiche, che grandissima importanza è data alle decorazioni delle porte, ma soprattutto del portale principale. Un’espressione peculiare di simbolismo: se si riflette sulla possibilità che il tempio sia un’immagine del mondo, non si può fare a meno di pensare che possa essere considerato altresì una porta aperta sull’aldilà. La porta verso il cielo. «“Io sono la porta da cui entrano le pecore. (…) Io sono la Porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo” (Gv. 10, 7-9)».

L’autore ci racconta che, il portale ha in sé due simbolismi: quello cosmico e quello mistico e che entrambi si implicano e si sostengono reciprocamente. Il mondo è una rivelazione ciclica di Dio nel tempo e nello spazio. Il cielo raffigura il movimento della vita, movimento circolare attorno al sole divino, come i pianeti e i segni zodiacali attorno al sole visibile. Lo zodiaco rappresenta gli “animali celesti” e non è inserito nel contesto casualmente: riproduce l’aspetto mitologico integrato nel Cristianesimo, contribuendo alla «crisi del mondo moderno».

Lo zodiaco è raffigurato come una ruota formata da animali (la ruota è un “ciclo”), spesso utilizzati nel simbolismo per attorniare Cristo in gloria. Sono i quattro animali, i quattro “esseri animati”, come ci insegna il latino (animalia), l’aquila, il toro, il leone e l’essere umano, a circondare il Figlio dell’uomo nella trasposizione della “Visione del carro del Signore” di Ezechiele e di San Giovanni. Ancora simboli nel nome divino Yhwh (Jehovah): la “y” corrisponde all’uomo, la “h” al leone, la “w” al toro e la seconda “h” all’aquila; dunque, se la ruota è un ciclo e l’anagramma del nome divino è inserito in una ruota (secondo la visione di Costantino), Cristo si pone al centro del cosmo, al centro della ruota, dunque al centro dello zodiaco (del cerchio degli “esseri animati”).


Note musicali e simbologia

Nella tradizione indù ad esempio, la seconda nota, “re” corrisponde al pavone, il “mi” al toro, il “fa” alla capra, il “sol” alla gru, il “la” all’uccello canterino, il “si” al cavallo pesce, il “do” all’elefante.

Ianniello parte dallo studio di Marius Schneider, Pietre che cantano, al quale si ispira la sua pubblicazione, per proporre un viaggio nel passato, alla scoperta delle correlazioni esistenti tra animali e note musicali. Schneider analizzò a fondo tre chiostri della Catalogna (San Cugat, Gerona e Ripoll) e individuò una conformità con gli inni gregoriani pietrificati, “pietre che cantano” (alla lettera), cioè composizione musicale attraverso la simbologia. Tale corrispondenza era diffusissima e assai spesso accadeva che frammenti o risonanze pietrificate fossero rappresentate, seppur non in tutte le chiese romaniche e/o gotiche fossero raffigurati inni completi. Alcune di quelle pietre che divenivano chiostri erano ispirate a santi e la pietrificazione musicale di quei luoghi, secondo Schneider, esprimeva lo scopo della guarigione.

In un excursus alquanto singolare, ma carico di osservazioni e approfondimenti, l’autore esplora l’universo medievale proponendo uno studio analitico sull’architettura di luoghi, abitudini e tradizioni. Il linguaggio è di immediata comprensione e la ricca bibliografia rende fattibile la possibilità di analizzare a fondo il tema trattato.


Marilena Rodi

(www.bottegascriptamanent.it, anno III, n. 19, marzo 2009)

martedì 2 giugno 2009

Quando la vita si aggira nella “provincia” umana..

Quando la vita si aggira
nella “provincia” umana
e i batticuori implodenti
conducono alla rinuncia

di Marilena Rodi

L'incapacità di reagire all’esistenza e l'accettazione silente:
nella raccolta di Besa editrice, un volo pindarico nell’inquietudine sociale


Un inconsueto spaccato di vita quotidiana “media”, una carrellata di esistenze “aggiunte” alla vita, il canto nostalgico della memoria levatosi da una voce fuori campo, quella di Monica Dini, autrice toscana alla sua seconda prova editoriale. Leggerezze (Besa editrice, pp. 128, € 13,00), Prefazione di Julio Monteiro Martins, in ventuno racconti brevi narra il malessere del vivere provinciale, la banalità di quel male che induce alla frustrazione, all’odio e all’incapacità di reagire, lasciando come paralizzati i protagonisti delle vicende. Questi ultimi sono tormentati dalla normalità quotidiana che “riempie” le loro vite e ne condisce il modus pensandi; sono uomini e donne angosciati, coppie sospese nel tempo e nei luoghi, generazioni che si interfacciano come estranei quasi sfuggendosi, donne sull’orlo di una maturità rinnegata e, in certi casi, ripudiata.


La sostenibile leggerezza dell’animo
Il titolo, quasi ironico, decreta una prova di identificazione del mondo interiore dell’essere umano, spesso al collaudo di vite insignificanti: è lieve, infatti, il tocco che l’autrice “impone” al fil rouge che lega una vicenda umana all’altra. «La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, nunzia dell’antichità», scriveva Cicerone nel De Oratore; un susseguirsi di eventi che firmano il canovaccio di una rappresentazione, quasi teatrale, dell’esistenza; un’impronta mai scavata nella quotidianità di soggetti che paiono trascinarsi nel tempo; personaggi comuni in situazioni limite, abbastanza vicini al punto di rottura, ma mai in grado di oltrepassarlo. «Il problema fondamentale non è se esista una vita dopo la morte, ma se esista prima» (così Giovanni Badino ne Un color bruno, citato nella pagina inaugurale da Monica Dini) e ancora: «Ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che forse ti stupirà di più, ci vuole tutta una vita per imparare a morire…», tratto da La brevità della vita di Seneca.
È lo sguardo tagliente sulla Toscana afflitta, ornata di boscaioli e casalinghe depresse, gente raminga e anziani in attesa di espiare l’ultima colpa: tutti fuoriclasse di banale umanità, che con la loro intramontabile convinzione di esseri perdenti – in fondo al cuore stesso dell’esistere – rappresentano una variante sguaiata e sottomessa della dignità.
Il volo pindarico dei desideri latenti dei protagonisti sfiora la tollerabilità di quegli usi e costumi di una società che rincorre l’evoluzione, ma resta incastrata nel bigottismo più sommesso: è l’incapacità di accettare la diversità e di svecchiare se stessi, l’immobilità di quel torpore che li avvolge.


Volti “noti” di personaggi quotidiani
Si susseguono quieti i personaggi dei racconti: l’uno alle prese con una danza improduttivamente sensuale, dinnanzi alla moglie omosessuale e all’amante, a sua volta moglie di un altro uomo “perdente”; l’altra, cinquantenne, nell’altalena svilente dell’età avanzata che si confronta con la maturità femminile di una piccola donna; l’altra ancora, perseguitata da insistenti fantasie erotiche con un barbone.
Donne prigioniere di vite coniugali monotone: una, vittima di un noto tradimento e dell’idea che «gli amori duraturi sono quelli impossibili, che il tempo ne ha paura, non li tocca»; un’altra che, per uno strano meccanismo socio-psicologico, tollera gli abusi del marito nella convinzione di non possedere alcun valore; ancora una donna che, nell’evasione disperata da un marito assente e infedele, incontra l’alter ego di un’anziana signora che, passando a miglior vita, l’abbandona nella totale solitudine.
Donne in bilico, con lo sguardo perso nel sogno di una notte, l’ennesimo, forse un incubo, nel quale vorrebbero riscattarsi dalla perdita di una persona cara.
Donne vinte dalla vigliaccheria perbenistica tipica del genitore: nonostante lo scetticismo religioso accettano che i loro figli assumano i sacramenti, poi crescendo potranno scegliere.
Donne di fronte alla scelta secolare tra amore per la famiglia e desiderio di realizzazione.


L’“eleganza” della rassegnazione
Il velo inconfondibile di accettazione si avverte alla fine, ripassando mentalmente gli episodi che pare di aver condiviso con gli attori della scena, al momento di assaporarne la consistenza: «Al di là di quello che so… C’è sempre quello che non so e mi consolo…», come recita l’apertura del capitolo La veglia.
Un’avvincente staffetta di cuori infranti, di sensibilità rese apatiche; un’affilata penna che imprime sulla carta i batticuori implodenti dell’uomo.

Marilena Rodi
(www.bottegascriptamanent.
it, anno III, n. 22, giugno 2009)